E la Parola di Dio si diffondeva” (Atti, 6,7)
Intervento per l’incontro delle famiglie missionarie a Km 0
Milano, 2 settembre 2017

+ fra Paolo Martinelli

PREMESSA

Grazie innanzitutto perché ci siete: devo dire che l’impatto di questa mattina qui incontrandovi per me è stato molto forte. Ho fatto un lavoro per preparare la risposta a queste domande e mentre vi incontravo questa mattina dicevo “chissà, forse al termine di questa giornata scriverò tutta un’altra cosa”, perché l’impressione di una vita molto forte, molto feconda, bella, comunicativa, mi ha come un po’ investito positivamente questa mattina arrivando.

Allora semplicemente condivido con voi alcune riflessioni che ho fatto sulle tre domande che adesso sono state riprese, e lo faccio così, un po’ con gli strumenti che ho dal punto di vista del lavoro che ho svolto nella mia vita come ricerca, e poi dell’esperienza che ho fatto in questi anni come vicario episcopale qui nella diocesi di Milano, anche grazie al coinvolgimento che mons. Luca Bressan mi ha proposto dentro alcuni incontri riguardanti le famiglie missionarie a km 0, e poi anche grazie all’esperienza che ho avuto di conoscere in particolare alcuni di voi.

 

“E la Parola di Dio si diffondeva” (Atti, 6,7). Una prima osservazione è sul testo degli Atti degli apostoli che è stato scelto come punto di riferimento: a me colpisce molto come è stata rappresentata visivamente, questa immagine della parola di Dio che si diffonde. Come? Attraverso una modalità che ci sfugge, non è programmabile, non è strutturabile, si sta di fronte a qualcosa che accade, ci sorprende, che ci riempie di gioia. Certamente nel brano che abbiamo ascoltato c’è l’articolarsi della vita della comunità cristiana che si sta strutturando: vediamo gli apostoli che decidono di imporre le mani, di pregare su alcuni discepoli incaricandoli di una missione di particolare servizio nella comunità, così che essi invece possano dedicarsi alla parola di Dio, alla preghiera. E proprio questa parola si diffonde tra il popolo: colpisce innanzitutto che non ci sia la proposta di una strategia, di un annuncio, ma c’è questa testimonianza della parola di Dio che è il vero soggetto, insieme allo Spirito Santo, dell’evangelizzazione.

Si tratta di una parola incarnata, quella parola che è Gesù Cristo, di cui le scritture sono l’attestazione originaria e insuperabile.
Ma si tratta di una parola viva, non di un discorso cristallizzato in dottrina, una parola incarnata e noi con la nostra esistenza siamo chiamati ad essere la carne di questa parola che accade qui ed ora nella Chiesa per la vita del mondo.
E’ una carne concreta, che subisce ferite e attacchi: proprio il versetto successivo a quello citato ci parla dell’arresto di uno di coloro che erano stati scelti per la diaconia: Stefano.
Si unisce così intorno al tema della diffusione della Parola, la diaconia e la martyria, la testimonianza che sa arrivare fino all’esposizione di se stessi e a versare il proprio sangue, ad imitazione della Parola stessa, la parola della croce, come la chiama san Paolo nella prima lettera ai Corinzi (1Cor 1,18).
Ecco dunque il contesto proprio della mia comunicazione: il centro è dato alla Parola di Dio, parola-carne, parola parlata nell’oggi, parola sacramentale, dove il Mistero si dona a noi nel segno, segno che siamo chiamati noi stessi ad essere. Noi siamo parte di questo segno, che è la Chiesa.
Egli infatti ci coinvolge nella sua parola. La sua Parola è Parola di alleanza, non si può essere uditori della Parola di Dio se non ci si lascia prendere dalla Parola stessa, prendere a servizio dalla Parola di Dio. Chi accoglie la parola partecipa alla storicità della parola stessa.
Il contesto della nostra riflessione di carattere teologico spirituale sull’esperienza delle famiglie missionarie a Km 0, che trova il suo centro Cristo, parola di Dio, si muove nel duplice orizzonte della diaconia e della martyria, del servizio e della testimonianza.
Ho tenuto presenti le domande che mi avete posto che così suonano:
– Famiglie missionarie km0: quale contributo possono dare al ri-annuncio della Buona notizia nella Chiesa e nelle singole comunità?
– Come lavorare insieme per dare volto a quella Chiesa “lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza” che ci indica Papa Francesco?
– Quali elementi spirituali coltivare e far crescere come coppie e come gruppo e su quali aspetti invece vigliare?

Non entro in merito agli aspetti più tecnici e operativi della vostra presenza e della vostra collaborazione, per soffermarmi sulle dimensioni spirituali del vostro impegno.
Innanzitutto vorrei considerare la novità di questa vostra presenza collaborativa e di vicinanza alla vita della parrocchia, del sacerdote e della comunità ecclesiale.

Un duplice dato fondamentale si impone:
1) leggendo alcune vostre testimonianze ci si accorge innanzitutto che tra voi in molti avete vissuto l’esperienza missionaria ad gentes prima che a km0, secondo diverse modalità, per periodi più o meno lunghi ed avete riconosciuto in questa esperienza un fattore significativo sia per l’aiuto che avete potuto dare alla Chiesa in quella circostanza, sia in riferimento alla vostra esperienza spirituale, alla vostra crescita come famiglia. Cioè l’essere famiglie missionarie vi ha fatto bene come famiglie.
2) Un’altra cosa importante è il fatto che voi spesso siete appartenenti a realtà carismatiche con una significativa valenza ecclesiale. Attingete nutrimento per la vostra vita personale e di coppia ad un carisma condiviso (associazioni, movimenti, nuove comunità, laici in rapporto con istituti di vita consacrata, etc.…).
Nello stesso tempo l’esperienza di essere famiglie missionarie a km 0 non si presenta, come tale, come un’opera di questi carismi condivisi. È molto importante cogliere questa relazione tra l’appartenere ad un’esperienza animata da un carisma condiviso e il mettersi a disposizione di una presenza della Chiesa particolare sul proprio territorio. È chiaro che ciascuno porta in questo impegno ecclesiale il bagaglio della propria esperienza con le sue caratteristiche ma non per fare una propria opera ma per mettersi al servizio dell’opera di un altro, in questo caso della diocesi, della Chiesa locale.
A mio parere questo indica una espressione di grande maturità dell’esperienza carismatica stessa e della vita spirituale in genere, che oltre ad avere opere proprie, giustamente e a pieno diritto, può esprimersi in persone che collaborino in una struttura di tipo istituzionale, come è di fatto la parrocchia.
Da questo punto di vista si potrebbe fare l’esempio analogo dei cosiddetti “religiosi affidatari di parrocchia”. Loro non devono fare la parrocchia dei Francescani, la parrocchia dei Salesiani, la parrocchia dei Gesuiti…; la parrocchia è sempre della Diocesi, ma i religiosi mettono il proprio carisma a servizio della parrocchia che è della Chiesa particolare.
Così, voi collaborate con una realtà che è propria della Chiesa di Milano con la vostra ricchezza personale e comunitaria.
Questo evoca una espressione molto cara a san Giovanni Paolo II e a Benedetto XVI e recentemente ripresa anche da papa Francesco: i doni gerarchici e quelli carismatici sono coessenziali alla vita e alla missione della Chiesa.
Si veda su questo il documento Iuvenescit ecclesia: “La Chiesa ringiovanisce”, sulla collocazione del carismi nella vita e nella missione della Chiesa: è una Lettera della Congregazione per la dottrina della fede, pubblicata nel 2016. In realtà l’espressione “doni gerarchici e carismatici” è del Concilio Vaticano II: Lumen gentium nn. 4 e 12.
I “doni gerarchici”, che si riferiscono alla grazia sacramentale dell’Ordine, non possono essere adeguatamente esercitati se non assumendo pienamente la ricchezza dei doni carismatici che lo Spirito Santo suscita nella Chiesa. E viceversa.
In questo senso vorrei guardare alla realtà delle famiglie missionarie Km 0 come ad un fenomeno ecclesiale di grande interesse perché realizza questa coessenzialità di carismi diversi nella collaborazione con la dimensione istituzionale della Chiesa.
Forse le famiglie missionarie a km 0 non hanno tanto un loro carisma condiviso (siete molto diversi tra voi); piuttosto hanno una collaborazione, un servizio, una diaconia condivisa in cui si esprime questa coessenzialità della dimensione carismatica alla vita e missione della Chiesa.

Dicevo che si tratta di una esperienza iniziale, presente dal 2013, anche se già all’opera significativamente in molte parti. Non è nata dall’alto; ma sostanzialmente dal basso e accolta dall’alto. Per questo suo carattere di novità credo sia necessario nel tempo approfondire le cose; credo che nessuno possa dire in questo momento in modo esaustivo di che cosa si tratta. Prius vita quam doctrina: vita enim ducit ad scientiam veritatis, diceva san Tommaso d’Aquino: “la vita viene prima della dottrina: la vita infatti conduce alla conoscenza della verità”.

 

I.
In questo contesto riprendo la prima domanda che mi è stata rivolta: – Famiglie missionarie km0: quale contributo possono dare al ri-annuncio della Buona notizia nella Chiesa e nelle singole comunità?
Per rispondere a questa domanda vorrei fare riferimento ad alcuni passaggi per me chiave della esortazione apostolica Evangelii Gaudium e di Amoris Laetitia.
Qual’è il vostro contributo fondamentale? Innanzitutto nel collaborare alla realtà della parrocchia presso la quale andate ad abitare, proprio in quanto famiglie. Per questo parto da un passaggio di Amoris Laetitia.
Si chiede di essere presenti innanzitutto come famiglie con tutto quello che questo vuol dire.
C’è molta gente che in genere può dare una mano come volontario in parrocchia; si può dare una mano in oratorio, si può fare catechismo, si può andare a fare il doposcuola per i ragazzi, si può partecipare al coro, fare il ministro straordinario per l’eucaristia, andare a trovare gli ammalati, un anziano solo, portarlo a messa alla domenica.
Tutte queste cose le si fanno in genere non in quanto si è famiglia, ma in quanto nella famiglia qualche membro – la mamma, il papà, la nonna – ha disponibilità, passione e competenza e si mette a disposizione. Ed il parroco, ben contento, la inserisce nell’organico del volontariato parrocchiale.
Qui invece voi diventate una presenza in parrocchia in quanto famiglia, una presenza stabile che condivide, collabora ed esercita alcune forme di corresponsabilità.
Il pastore in questo caso sa che voi siete presenti come famiglia, come soggetto familiare. La vostra diaconia alla diffusione della parola si lega a filo doppio alla martyria, alla testimonianza della vostra vita familiare.
Ovviamente si tratta di capire bene questa cosa: non è che l’ideale della famiglia cristiana sia andare ad abitare nella canonica della parrocchia. Questo indica un aspetto peculiare e provvidenziale.
Tuttavia è significativo che la presenza di collaborazione avvenga da parte della famiglia in quanto tale.
L’espressione famiglia in quanto famiglia come soggetto principale dell’azione pastorale ed evangelizzatrice è ricorsa molte volte durante i due sinodi sulla famiglia e rientrata massicciamente nelle due relationes che hanno chiuso il sinodo. Anche l’esortazione apostolica Amoris Laetitia ha ripreso questo aspetto. Innanzitutto al n. 200 e al n.290:
AL 200: “I Padri sinodali hanno insistito sul fatto che le famiglie cristiane, per la grazia del sacramento nuziale, sono i principali soggetti della pastorale familiare, soprattutto offrendo «la testimonianza gioiosa dei coniugi e delle famiglie, chiese domestiche».[225] Per questo hanno sottolineato che «si tratta di far sperimentare che il Vangelo della famiglia è gioia che “riempie il cuore e la vita intera”, perché in Cristo siamo “liberati dal peccato, dalla tristezza, dal vuoto interiore, dall’isolamento” (Evangelii gaudium, 1). … …Non basta inserire una generica preoccupazione per la famiglia nei grandi progetti pastorali. Affinché le famiglie possano essere sempre più soggetti attivi della pastorale familiare, si richiede «uno sforzo evangelizzatore e catechetico indirizzato all’interno della famiglia»,[228] che la orienti in questa direzione”.
AL 290: “«La famiglia si costituisce così come soggetto dell’azione pastorale attraverso l’annuncio esplicito del Vangelo e l’eredità di molteplici forme di testimonianza: la solidarietà verso i poveri, l’apertura alla diversità delle persone, la custodia del creato, la solidarietà morale e materiale verso le altre famiglie soprattutto verso le più bisognose, l’impegno per la promozione del bene comune anche mediante la trasformazione delle strutture sociali ingiuste, a partire dal territorio nel quale essa vive, praticando le opere di misericordia corporale e spirituale».[310] … Anche nel cuore di ogni famiglia bisogna far risuonare il kerygma, in ogni occasione opportuna e non opportuna, perché illumini il cammino. Tutti dovremmo poter dire, a partire dal vissuto nelle nostre famiglie: «Noi abbiamo creduto all’amore che Dio ha per noi» (1 Gv 4,16). Solo a partire da questa esperienza, la pastorale familiare potrà ottenere che le famiglie siano al tempo stesso Chiese domestiche e fermento evangelizzatore nella società”.

Perché questa insistenza di papa Francesco e dei Padri Sinodali? Su questo il Cardinale Scola ha dato delle ragioni a mio avviso convincenti. La famiglia è il soggetto primario della evangelizzazione, in quanto famiglia, perché attraverso la sua vita si può mostrare il nesso profondo tra il Vangelo e la cultura, tra la fede e la vita.
Infatti la famiglia è il luogo fondamentale in cui si gioca l’umano come intreccio di affetti, di lavoro, di riposo, dove si nasce, si cresce, ci si ammala, dove c’è gioia e dolore, dove si invecchia e muore.
Il problema del cristianesimo è esattamente quello di aver perso nell’epoca moderna la sua pertinenza antropologica, di essere diventato estraneo alla vita quotidiana e ai suoi problemi. E’ la diagnosi di Paolo VI nella Evangelii nuntiandi: la rottura tra vangelo e cultura è il dramma della nostra epoca (n. 20).
C’è una famosa frase del poeta anglo americano Thomas Stern Eliot nei Cori da La Rocca, in cui ci si domanda se sia la Chiesa ad aver abbandonato l’umanità oppure è l’umanità ad aver abbandonato la Chiesa. Sta di fatto che la cifra più imponente dei processi di secolarizzazione non è nemmeno la crisi della frequenza ai sacramenti (questo è come una conseguenza estrema) quanto piuttosto l’estraneità: una fede sostanzialmente inutile perché umanamente irrilevante.
Per questo la nuova evangelizzazione passa inevitabilmente attraverso la scoperta e la pertinenza umana dell’Evangelo cioè l’Evangelo dell’umano.
È di tutta evidenza che questa pertinenza non può offrirla innanzitutto il religioso o la religiosa, nemmeno il prete caratterizzato da un ministero preciso dentro la comunità cristiana. Ma la famiglia per questa originaria relazione all’umano comune a tutti gli uomini.
Questo è il motivo per cui sempre papa Francesco ha parlato del matrimonio e della famiglia come vocazione in senso proprio e non solo come legame naturale.
Mentre un tempo – soprattutto per rispondere all’ondata di secolarizzazione – si parlava di vocazione in senso proprio solo per i preti e per la vita consacrata, a partire dal Vaticano II – dalla Gaudium et Spes – fino a Amoris Laetitia si afferma che il matrimonio non è semplicemente una realtà naturale a cui si aggiunge una benedizione sacramentale. E’ vocazione perché il suo fondamento è nel mistero nuziale di Cristo e della Chiesa.
Quindi la prima cosa che la Chiesa vi chiede è che siate presenti là dove venite inviati come famiglia vivendo la pienezza della vita familiare, mostrando come la fede illumini il mistero dell’amore tra l’uomo e la donna, nella accoglienza della differenza, nel dono reciproco e nella fedeltà, aiuti nel rapporto tra le generazioni, sul senso degli affetti e dei legami, della nascita e dell’accoglienza dei figli, nella solidarietà e nell’attenzione al bisogno verso tutti; diventando così veramente “Chiesa domestica”.
Quindi prima di assumere un incarico particolare vi chiediamo di esser presenti in parrocchia, di abitare, di essere vicini al sacerdote, essere vicini alle altre famiglie come famiglia che vuole vivere fino in fondo la propria vocazione matrimoniale.

L’altra espressione di riferimento è naturalmente famiglie “missionarie”. Qui l’accento ricade sulla missione. Questa è una parola importantissima dal punto di vista della vita cristiana. Direi che fuori da questa parola non si capisce il cristianesimo stesso come vita nuova.
Biblicamente è una parola chiave per comprendere la stessa persona di Gesù. È noto a tutti che questa parola ha una grande valenza scritturistica e non si colloca semplicemente come un aspetto tra altri nella vita cristiana. Tale parola possiede una capacità di intrecciare la riflessione cristologica, trinitaria, ed ecclesiologica, mostrandone anche tutta la rilevanza antropologica.
Nel vocabolario del Nuovo Testamento apostéllein , nella sua articolata differenza da espressioni analoghe (come ad esempio pempein), indica non un generico essere mandati, ma un essere inviati per il preciso compito dell’edificazione del Regno.
Ciò è illustrato maggiormente se si assume una suggestiva e feconda intuizione di von Balthasar nella sua “cristologia drammatica”, in cui, rileggendo tutto il Nuovo Testamento in questa chiave, vede in Cristo la coincidenza, per noi irraggiungibile, tra la sua Persona e la sua missione.
Il vangelo di Giovanni, ma non solo, è costellato in effetti da espressioni nelle quali Gesù mostra che la coscienza che possiede di se stesso è ultimamente coscienza di essere il Figlio mandato dal Padre a fare la sua volontà. Gesù si presenta nel vangelo come il-mandato-dal-Padre a fare la sua volontà.
Questa visione ci permette di guardare alla vita della Chiesa ed in particolare alla vita della famiglia come missione.
Se è vero che solo in Cristo possiamo avere una perfetta coincidenza tra persona e missione, tuttavia è suggestivo pensare, anche dal punto di vista antropologico, come la nostra vita trovi compimento nella misura in cui riconosciamo la nostra chiamata, vi corrispondiamo e vi aderiamo a tal punto da sentire che questa missione è in effetti la nostra stessa vita. Nell’abbracciare la nostra missione afferriamo la nostra identità più vera.
Qui vorrei riportare un passaggio di Evangelii Gaudium che a mio avviso costituisce una descrizione assai emblematica della vita cristiana: “La missione al cuore del popolo non è una parte della mia vita, o un ornamento che mi posso togliere, non è un’appendice, o un momento tra i tanti dell’esistenza. È qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio distruggermi. Io sono una missione su questa terra, e per questo mi trovo in questo mondo. Bisogna riconoscere sé stessi come marcati a fuoco da tale missione di illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire, liberare” (EG 273).
Cioè, la questione della missione è una questione di vita e di morte. Chi non vive la vita come missione perde la consistenza della propria vita, è qualcosa che non posso sradicare dal mio essere se non voglio autodistruggermi. E poi dice: Io sono una missione in questa terra. Non sta dicendo io ho una missione, sta dicendo io sono una missione su questa terra, per questo mi trovo nel mondo, bisogna riconoscere se stessi come marcati a fuoco da tale missione: illuminare, benedire, vivificare, sollevare, guarire e liberare.
Come si vede, il Santo Padre parla di come ciascuno sia una missione in questo mondo. Non c’è nulla che ci caratterizzi in senso così proprio come la propria missione specifica.
Forse un equivoco che possiamo vivere nell’assumere in modo così totalizzante la missione sta nel fatto che essa potrebbe essere intesa sostanzialmente come una “cosa da fare”, indugiando su una idea attivistica del cristiano.
In realtà si tratta di un equivoco. Se la missione fosse una “cosa da fare”, nessuno potrebbe coincidere con esse. In realtà, soprattutto se ci riferiamo al modo con cui Gesù stesso descrive se stesso come “la missione del Padre”, ci sarà facile riconoscere che la missione, prima di essere qualcosa da fare, è un modo di essere, di abitare il mondo, è un modo di concepire se stessi, gli altri e la realtà.
Proprio approfondendo la missione, così radicalmente intesa, ci è possibile considerare il fatto che il mandato/inviato si trovi sempre situato tra due polarità fondamentali ed indivisibili.
L’origine della sua missione e la destinazione dell’invio. L’inviato non può nemmeno per un istante concepire se stesso senza relazione con colui che lo invia e con coloro con i quali e ai quali è inviato.
A me sembra che solo questa concezione radicale della vita come missione faccia comprendere il senso della Chiesa in uscita, come si afferma ancora in Evangelii Gaudium 49:
Usciamo, usciamo ad offrire a tutti la vita di Gesù Cristo. …preferisco una Chiesa accidentata, ferita e sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze. Non voglio una Chiesa preoccupata di essere il centro e che finisce rinchiusa in un groviglio di ossessioni e procedimenti. Se qualcosa deve santamente inquietarci e preoccupare la nostra coscienza è che tanti nostri fratelli vivono senza la forza, la luce e la consolazione dell’amicizia con Gesù Cristo, senza una comunità di fede che li accolga, senza un orizzonte di senso e di vita. Più della paura di sbagliare spero che ci muova la paura di rinchiuderci nelle strutture che ci danno una falsa protezione, nelle norme che ci trasformano in giudici implacabili, nelle abitudini in cui ci sentiamo tranquilli, mentre fuori c’è una moltitudine affamata e Gesù ci ripete senza sosta: «Voi stessi date loro da mangiare» (Mc 6,37).
Quando io ho sentito la prima volta questa espressione veramente mi è sembrato che il papa esagerasse: usciamo, usciamo ad offrire a tutti la vita di Gesù Cristo. Preferisco una Chiesa accidentata, ferita, sporca per essere uscita per le strade, piuttosto che una Chiesa malata per la chiusura e la comodità di aggrapparsi alle proprie sicurezze.
Ha insistito tante volte su questa espressione. Io mi sono fatto questa convinzione: è una frase giusta perché è mille volte meglio il rischio di sbagliare, ma è meglio muoversi piuttosto che rimanere fermi. Mille volte meglio il rischio di sbagliare, perché chi non vive la propria missione sicuramente sbaglia, sicuramente. E’ in contraddizione rispetto alla propria identità.
Allora famiglie missionarie, cioè famiglie che innanzitutto vivono l’essere famiglia come mandato e che, come famiglie, vivono il mandato proprio di Gesù a tutta la Chiesa. Questo trasfigura gli affetti e le relazioni: vi accogliete vicendevolmente come famiglie in forza del mandato che redime e purifica anche tutto l’aspetto naturale presente nelle relazioni affettive: siamo insieme perché siamo mandati. In un duplice senso: essere famiglia come missione e la famiglia stessa come soggetto missionario.

 

II.
Qui incontriamo la vostra seconda domanda: – Come lavorare insieme per dare volto a quella Chiesa “lieta col volto di mamma, che comprende, accompagna, accarezza” che ci indica Papa Francesco?

Se il vostro primo contributo per essere famiglie missionarie a Km 0 è quello di vivere fino in fondo il vostro essere famiglia, allora proprio in questa realtà trovate l’indicazione del contributo che potete dare per una Chiesa dal volto di Madre.
Non è proprio questo quello che deve realizzare una famiglia in se stessa? Non è forse questa la Chiesa domestica di cui parlavano i padri della Chiesa e che il concilio Vaticano II ha ripreso e rilanciato?
Mi sembra che qui emerga la presenza della famiglia come luogo dell’accoglienza dell’altro in quanto altro, che non giudica, ma che ascolta e accompagna, offre e indica il volto di colui che è la misericordia del Padre.
La comunità ecclesiale ha nella famiglia il suo punto di riferimento fondamentale; una famiglia missionaria a Km 0 penso che si ponga come presenza all’interno dell’ambito della comunità volendo incarnare questa anima materna, accogliente e generativa della comunità cristiana.
Anche gli incarichi, le collaborazioni, i servizi che possono essere assunti all’interno della propria presenza nell’ambito della parrocchia devono avere la preoccupazione di mostrare questo volto della Chiesa.
Mi ha colpito molto nel leggere le vostre testimonianze pubblicate sul sito e sui giornali l’insistenza che le famiglie Km0 non si concepiscono in sostituzione del prete, non devono assumere il compito suo proprio. Se la famiglia si clericalizza smette di dare il suo contributo originale.
Certamente lungo i secoli il clero ha assunto incarichi che non gli sono propri, mostrando così un volto clericale della comunità cristiana, dove i laici rischiavano di essere solo clienti nella Chiesa. E’ bene dunque che quelle funzioni che non sono strettamente legate al ministero ordinato siano condivise nella comunità cristiana da coloro che appartengono allo stato di vita laicale o consacrato.
Tuttavia ritengo che una famiglia che si dedica con questa intenzione missionaria deve essere preoccupata di offrire innanzitutto questo volto di una famiglia cristiana, che prende la fede sul serio per la propria vita, che fa diventare la fede forma della propria vita e forma delle proprie relazioni e che in tutto ciò che fa esprime questo volto accogliente, come è proprio della famiglia, volto che accoglie e lancia dentro la vita, ed impara a non trattenere.
Lo chiamerei uno stile di tenerezza, quello di una famiglia missionaria a Km 0; quella tenerezza che è più di un sentimento; papa Francesco parla di “rivoluzione della tenerezza”, invita a non avere paura della tenerezza; Giovanni Paolo II diceva che la tenerezza è “sentire l’altro tutto intero”, percepire l’altro nel suo mistero, nel suo destino buono e affermare l’altro per questo sua cammino.

 

III.
Termino con qualche osservazione sull’ultima domanda:
– Quali elementi spirituali coltivare e far crescere come coppie e come gruppo e su quali aspetti invece vigliare?

La prima cosa che vi consiglio a questo proposito è quello di coltivare fedelmente quello che vi fa crescere nella vostra vocazione cristiana e matrimoniale, di sposo e sposa, di mamma e di papà.
Qui torno a quanto accennavo all’inizio: se voi avete un alimento spirituale specifico, siete mossi dall’appartenenza ad un carisma condiviso, che può essere quello di una associazione, di un movimento o di nuove comunità è bene che continuate ad avere questo riferimento. Questo riferimento è un ingrediente della vostra esperienza missionaria.
La vostra responsabilità come famiglie missionarie a Km 0 non può essere in alternativa all’appartenenza carismatica che vi fa essere, che vi fa crescere nella fede, che vi nutre nel vostro essere battezzati e legati nel sacramento del matrimonio. Teneteci, coltivate quelle relazioni che vi fanno crescere nella fede e nella vocazione e quindi nella missione. Se dimenticate questo vi esponete all’inaridimento e alla riduzione funzionale della vostra missione.

Inoltre, a livello di gruppo di famiglie missionarie a Km 0 credo che sia importante una stabile coordinazione tra voi per sostenervi nella reciproca testimonianza di vita. È bene che possiate condividere tra voi come gruppo quello che vi fa crescere, le esperienze che state facendo nella vostra missione; è ben anche che condividiate anche i dubbi e le domande che vi sorgono. Non censurate le fatiche e le incomprensioni, condividete e chiedete, pregate anche insieme.
Come dicevamo, è una esperienza nuova, è importante che si verifichi regolarmente l’andamento della vita.

Inoltre, questa vostra responsabilità certamente vi visibilizza particolarmente nella parrocchia; questo più che mettervi in un gradino superiore – basta cristiani di serie a e di serie b! – vi chiede una vigilanza maggiore.
In un certo senso con questa posizione siete maggiormente esposti sia nella comunità ecclesiale, sia nella realtà sociale. Due parole chiavi sono la responsabilità e la libertà, con un forte senso del servizio che si sta compiendo per tutti. Si possono assumere responsabilità che vi espongono nella comunità e società solo con cuore libero e lieto.
Il bene che fate sarà amplificato, ma anche gli errori che potete fare avranno con tutta probabilità un’eco più grande. Per cui è bene coltivare un senso di responsabilità condiviso. Per questo è necessario essere consapevoli che in questo modo condividete con la vostra collaborazione e presenza la responsabilità della presenza del volto della Chiesa sul territorio e quella dei vostri pastori. La prima responsabilità e vivere la comunione con i vostri pastori.

Infine, questo collocarvi anche fisicamente dentro il perimetro della istituzione parrocchiale vi colloca anche di fatto più vicine all’istituzione stessa, in primis nella collaborazione con il sacerdote, il pastore.
Questo ha un aspetto molto bello e molto provvidenziale. Per spiegare questo si dovrebbe considerare un fenomeno oggi assai diffuso nelle nuove forme di vita consacrata ed è il fatto che molti carismi condivisi tendono a rappresentarsi ed esprimersi nelle diverse figure vocazionali della vita cristiana.
Nell’epoca moderna un ruolo fondamentale è stato assunto dal clero e dalla vita religiosa che hanno sottolineato molto l’aspetto di separazione rispetto al resto del popolo cristiano, oltre che alla società.
Il binomio “consigli evangelici” da una parte e “via dei comandamenti” dall’altra, aveva caratterizzato la spiritualità negli ultimi secoli, dando origine ad un cristianesimo a due velocità.
Il medioevo per certi aspetti era più libero e più sciolto su questo tema; pensiamo al fenomeno dei “terzi ordini”: ad esempio all’ordine francescano secolare: è stata una chiara partecipazione della figura laicale ad un carisma che aveva la sua espressione tipica nella vita religiosa.
Se noi guardiamo alle nuove realtà carismatiche troviamo una caratterizzazione meno sacerdotale e religiosa ma più laicale; in quelle recentissime troviamo una crescita delle realtà che si attestano in una comunione di stati di vita differenti. Condividono lo stesso carisma sacerdoti, consacrati e laici, in particolare famiglie. La Chiesa in effetti è questa comunione di vocazioni diverse e tutte hanno una loro eccellenza ed un loro senso. La comunione non appiattisce ma esalta le differenze facendole reagire per fecondarsi vicendevolmente.

Sulla modalità concreta di questo rapporto, in particolare tra famiglie e pastore, esistono immagini diverse. Vi sono realtà dove il rapporto tra la famiglia e il presbitero è più stringente ed altre che conservano una più chiara autonomia del nucleo famigliare, sia rispetto alla realtà famigliare come tale, sia rispetto alla attività svolta presso la parrocchia.
Da parte mia, mi sembra importante affermare l’importanza della relazione con il presbitero a cui si fa riferimento, in quanto è implicata dal mandato stesso di famiglie missionarie a km 0; tuttavia mi sembra importante custodire il ritmo proprio della famiglia, il suo nucleo e la sua intimità, con dei momenti propri e con dei momenti condivisi con il sacerdote e con gli altri responsabili della parrocchia.
Il pericolo più grande che vedo è quello proprio di tutta la Chiesa: il funzionalismo che svuota il soggetto, forse lo gratifica per quel che fa ma non lo edifica per quel che è. Papa Francesco lo chiamerebbe il rischio del pelagianesimo (cf. Evangelii Gaudium e l’intervento a Firenze 2015).
Questo del resto è il grande criterio per vivere la vita come vocazione e come missione: che quanto si vive edifichi e non estenui il soggetto: questo vale per tutti gli stati di vita, tanto più per la famiglia.
Questo non vuol dire che non ci sia una dimensione di sacrificio nel servizio e nell’esercizio della missione: ma occorre riconoscere che c’è una fatica che logora ed una fatica che edifica e fa crescere. Mai confondere le due forme di fatica! Ci sono fatiche che fanno parte del sacrificio della crescita e invece ci sono fatiche che logorano, come guidare una macchina senza inserire la marcia: consumi un sacco di benzina ma non ti sposti da nessuna parte.
Non concepiamoci come degli elettrodomestici che si scaricano nell’uso e che devono poi essere ricaricati. Noi non siamo delle batterie da ricaricare qualche ora al giorno e poi vivere scaricandosi… La vera missione, quando è vissuta bene, compie il soggetto nella sua autenticità, lo fa crescere.
L’essere famiglie a km 0 deve avere come esito un senso più profondo del proprio matrimonio, della dimensione sponsale del proprio amore ed una intensità più grande del rapporto tra le generazioni; ultimamente deve fare crescere il rapporto con Cristo personalmente e comunitariamente.

In questo senso inviterei a non centrare la relazione solo con il pastore – che ovviamente dal punto di vista istituzionale ha il suo compito ineludibile; invito a ricercare il rapporto con quelle persone che nel vostro ambito parrocchiale o di impegno ecclesiale sono chiamate al carisma particolare della scelta della verginità, della dedizione a Dio mediante i consigli evangelici.
Siano suore o frati in forme tradizionali, sia nelle nuove forme maggiormente laicali, come l’Ordo Virginum o le Ausiliarie, è importante che ci sia un riferimento degli sposati ai consacrati e consacrate. Deve essere un rapporto sobrio, che punti all’essenziale.
Lo stesso rapporto con il pastore sarà arricchito dalla relazione con persone consacrate; tale relazione aiuta a comprendere il senso del matrimonio cristiano, al senso degli affetti e della fecondità, visti dal punto di vista della risurrezione, della vittoria sul male e sulla morte, che spesso invece condiziona fortemente le relazioni.
Una buona relazione con la realtà della vita consacrata può anche aiutare a vincere il rischio della funzionalizzazione della missione e restituirla alla sua originaria dimensione vitale e testimoniale.
Le famiglie missionarie sono preziose innanzitutto perché ci sono, per la testimonianza della loro vita evangelica, prima che per le cose che possono fare.
Anche il mondo di oggi ha bisogno di testimoni; il cristianesimo non si comunica per proselitismo ma per attrattiva, diceva Benedetto XVI e ripete papa Francesco: la testimonianza di una vita evangelica è l’attrattiva che parla anche all’uomo postmoderno.
Concludo con le stesse parole che chiudono l’Amoris Laetitia: Tutti siamo chiamati a tenere viva la tensione verso qualcosa che va oltre noi stessi e i nostri limiti, e ogni famiglia deve vivere in questo stimolo costante. Camminiamo, famiglie, continuiamo a camminare! Quello che ci viene promesso è sempre di più. Non perdiamo la speranza a causa dei nostri limiti, ma neppure rinunciamo a cercare la pienezza di amore e di comunione che ci è stata promessa.

E’ questo l’augurio che faccio ad ogni famiglia missionaria a Km 0!