CONVEGNO DIOCESANO 2017

TESTIMONIANZE – 6 minuti x 6 parole-chiave: racconti dal quotidiano delle famiglie missionarie a Km0:

  • Ecclesialità = Uniti…nelle differenze – Michela e Luigi Magni, responsabili Servizio per la Famiglia della Diocesi
  • La pastorale del caffè – Chiara e Giovanni Balestreri, parr. Vigano Certosino
  • La missione dopo la missione (ad gentes) – Corinna e Mattia Longoni, parr. San Rocco, Monza
  • Famiglia&preti: corresponsabilità, fraternità, chiesa – don Alberto Bruzzolo, fraternità missionaria parr. Sacro Cuore in Ponte Lambro.
  • Casa tra le case: voce alle comunità parrocchiali – comunità della chiesa San Giuseppe Artigiano, parr. San Martino, Bollate
  • Essere segno nella città che cambia: un diverso volto della parrocchia – parrocchia Sant’Eugenio, Milano

Sei parole chiave su cui abbiamo riflettuto in questi anni

  1. Ecclesialità = Uniti…nelle differenze – Luigi e Michela

Cercherò di essere breve. Leggo per stare nei 6 minuti. Gran parte di quello che volevo dire è stato sottolineato da Fra Paolo nel suo intervento. Il nostro non è tanto un raccontare un’esperienza di famiglia a km zero perché noi non viviamo questa esperienza. Noi ci siamo trovati come responsabili della pastorale familiare della Diocesi con il cammino che stava iniziando. Noi siamo subentrati nel 2014 e il cammino era iniziato l’anno prima e don Luca ci ha subito invitato a partecipare per conoscere e cercare di camminare insieme.

La nostra testimonianza non è di una famiglia che sta vivendo questa esperienza bella e preziosa per la Chiesa Ambrosiana. Noi qui rappresentiamo il Servizio Diocesano per la famiglia e in questo ruolo fin da subito siamo stati coinvolti in questo cammino per conoscere ed aiutare a far crescere una presenza “particolare” all’interno della Diocesi.

Fin dall’inizio del nostro incarico nel 2014, il Vicario mons. Luca Bressan, ci ha invitato a tenere contatti con il gruppo che stava appunto consolidandosi e prendere sempre più una forma ecclesiale all’interno della nostra Diocesi.

In questo percorso vedevamo e vediamo un modo concreto per realizzare una possibile esemplificazione di quanto il card. Scola, già al suo ritorno dalla prima sessione del Sinodo sulla famiglia, aveva lanciato come mandato a tutta la Diocesi ed in particolare alle famiglie ben espresso nel tema “Famiglia soggetto di evangelizzazione”, una prospettiva che colloca la famiglia in un ruolo attivo e da protagonista   nel compito di essere testimone e annunciatore del vangelo nella quotidianità dei gesti e delle parole.

Noi come servizio per la famiglia abbiamo partecipato agli incontri di gruppo, che ogni volta hanno visto aumentare il numero di presenze. Questa è una cosa molto bella. Ogni volta che ci trovavamo c’era sempre qualche faccia nuova e avevamo sempre indicazione di persone che stavano bussando e chiedevano e questo ci rendeva responsabili come pastorale familiare a dire “e noi cosa facciamo, come ci muoviamo rispetto a questa domanda?”

E’ stato ed è importante l’aver vissuto questi incontri come momenti ecclesiali che sottolineavano la voglia e la volontà di mettersi in gioco all’interno della Chiesa e per la Chiesa.

Sono stati importanti gli incontri avvenuti con i Vicari di Zona, gli incontri con i sacerdoti che condividono o pensano di vivere tale esperienza. Per sottolineare ancora di più l’ecclesialità di questa esperienza il card. Scola ha chiesto a mons. Bressan di istituire una commissione di lavoro per dare una forma a questa esperienza.

Ci sembra importante sottolineare che la Diocesi, ed in particolare il Servizio per la Famiglia, non si affianca a questa esperienza per l’esigenza di riempire le canoniche vuote e dare un aiuto ai sacerdoti che si trovano soli in parrocchie ampie con bisogni per la gestione della pastorale ordinaria.

Il Servizio per la famiglia vede importante queste presenze, che vorremmo definire, di condivisione di due vocazioni diverse ma simili. Per dare la possibilità ai sacerdoti di vivere a fianco di una famiglia non da “ospite occasionale” ma nella concretezza dei ritmi, delle scelte, delle preoccupazioni quotidiane, ed alle famiglie di vivere in modo sistematico la vicenda vocazionale del sacerdote. Condividere momenti di preghiera, momenti di fraternità, sostegno vicendevole nei momenti di difficoltà, condivisione di alcuni momenti di vita pastorale.

In questo vediamo un salto di qualità nell’affrontare i temi della famiglia e della pastorale ordinaria delle nostre parrocchie. Siamo convinti, e le esperienze attuali ci danno ragione, che l’arrivo di una famiglia missionaria a km0 in una comunità non sia percepito come la risposta ad una emergenza, un aiuto per sostenere i bisogni della pastorale, ma saranno un aiuto perché il prete possa vivere la sua vocazione in modo più completo e viceversa.

Perché tutto questo avvenga in modo ecclesiale e non, seguendo “intuizioni momentanee o passeggere”, sono stati importanti gli incontri con i VEZ, in alcuni casi sono state significative la presentazioni alle comunità da parte degli stessi VEZ.

In tale modo si è potuto spiegare e condividere i principi ispiratori di una scelta che altrimenti potrebbe generare un malcontento o una non comprensione. Utile chiarire ad evitare erronee interpretazioni di ruoli e   far ipotizzare l’occupazione di spazi della parrocchia senza alcun titolo.

Siamo naturalmente agli inizi e le fatiche ci sono, perché ognuno ha le sue idee, ognuno arriva da esperienze diverse, alcuni arrivano da esperienze “fidei donum”, altri scout, altri dal terzo ordine francescano, altri dall’associazione Papa Giovanni XXIII, altri dal Mato Grosso, altri come famiglie che vivono nella nostra diocesi e vogliono fare questa esperienza.

Il compito della Diocesi ed in particolare del Servizio per la Famiglia, non è quello di vigilare ma è quello di camminare insieme per favorire una realtà di chiesa sempre più vicina alle famiglie ed ai sacerdoti.

 

Questo è quello che volevamo condividere, è lo spirito che abbiamo colto in questi anni.


  1. La pastorale del caffè – Chiara e Giovanni

 

Chiara:

Credo che in nessuna diocesi ci sia un ufficio preposto alla pastorale del caffè. Semplicemente è una parola un po’ ad effetto per dire una delle relazioni, un modo di fare, di vivere di stare come presenza trasversale in tutti i momenti della giornata che si vivono. Questo vuol dire cercare di imparare a perdere tempo, noi che siamo sempre a correre dietro al tempo, imparare a fermarci, a ascoltare, incontrare e raccontarci con le persone che incontriamo.

Elemento importante di questa pastorale è la porta aperta: porta dove la gente entra, si parla, si ascoltano le fatiche e anche le gioie e le bellezze.

A volte però bisogna uscire dal porto sicuro, uscire è un invito che ci rivolge anche Papa Francesco.

Non aspettare che vengano le persone, ma andare a visitare, uscire dalle sicurezze delle quattro mura della canonica, della chiesa, dell’oratorio per andare a trovare. Entrare nelle casa di qualcun altro per farci vicini, farci prossimo.

 

Giovanni:

Questo tipo di atteggiamento ci induce spesso a chiederci il perché.

Quando siamo tornati dal Perù ci è stato chiesto di andare a vivere in parrocchia ed era quasi l’esatto contrario di quello che avevamo fatto in Perù dove non abbiamo volto vivere in parrocchia ma abbiamo cercato una casa nel paese.

Abbiamo cercato il motivo di questo e la risposta è di cercare di essere una possibilità di testimonianza e di avvicinare le persone e dire “quello che facciamo noi lo puoi fare benissimo anche tu”. La pastorale del caffè è una pastorale ripetibile ovunque, non è una prerogativa di me e Chiara o della catechista, ma è proprio un atteggiamento cristiano di prendersi cura del vicino, di avere attenzione a cosa capita nelle famiglie della classe, nella società sportiva, nel mondo del lavoro.

Questo perché ci stimola a tenerci sempre vivi, non sederci, continuare a rinnovarci, partecipare a incontri, ritiri spirituali a domandarci a che punto siamo come percorso nostro, di coppia, di quello che possiamo trasmettere.

L’altro perché è perché la gente ci cerca, perché viene in casa, nella parrocchia e anche qui ci invita a essere pronti, come dice il Vangelo, pronti al padrone che bussa. Quando hai un incontro parrocchiale “classico” ti prepari, studi, sai cosa ti aspetta, invece quando hai la porta aperta arriva questa persona e non sai perché è venuta: magari è venuto a chiedere il pallone, magari per raccontare cosa gli è successo, magari una cosa piacevole o una cosa drammatica. Siamo sottoposti a questa varietà perché c’è un mondo.

In questo la cosa bella è che c’è una relazione bella con il parroco e il coadiutore. Questa pastorale del caffè è un momento nostro, al di là della diaconia che è un momento ufficiale, questo è un momento umano di fraternità tra le persone che collaborano alla vita parrocchiale.

L’altro perché è un po’ più profondo. Ci viene spesso da dire “come mai Dio ci ha voluto lì”. Questo è veramente molto pesante e ci invita a continuare a camminare.

Infine l’ultimo perché che non ha una risposta è perché quando le persone vengono in casa cercano Chiara e non cercano me…ma questo richiederebbe un altro convegno


  1. La missione dopo la missione (ad gentes) – Corinna e Mattia

Esperimento: stare 20 secondi in punta di piedi

Mattia

Missione dopo la missione: per me e Corinna da educatori in parrocchia, ciascuno nella sua, c’è stata la missione al matrimonio poi la missione in Ecuador e poi ancora la missione una volta tornati a Calco in un piccolo paesino della Brianza e poi ancora un’altra missione a Monza vivendo nell’oratorio di San Rocco. Allora ci diciamo che quello che dice Papa Francesco nel numero 73 di Evangelii Gaudium è proprio vero, che ci dobbiamo sentire costantemente inviati, siamo sempre missionari e la missione non è un contratto a tempo determinato ma qualcosa a tempo indeterminato.

A differenza dei contratti a tutele crescenti introdotti dal Jobs Act questo è un contratto a tutele decrescenti, nel senso che ti mette sempre più in gioco, sei sempre più esposto.

Dal momento in cui ci rendiamo conto che la vera gioia sta nel condividere con altri la nostra gioia, quella che proviamo Corinna ed io con i nostri bimbi, e lo stupore che proviamo nel continuare a scoprire e riscoprire il messaggio del vangelo, allora non si può più far finta di non essere missionari. Una volta che hai visto la volta celeste, l’hai vista!

Corinna

Una persona che ha segnato la nostra vita è stato un padre della consolata che come spesso succede arrivano, entrano nella tua vita, poi ti lasciano perché partono. Al momento della partenza, alla messa di saluto di questo missionario lui dice a tutti in modo provocatorio ma non troppo “io parto, ma voi non restate”. Questa provocazione ci è rimasta come uno stimolo: cosa vuol dire questo non restare.

Noi poi siamo partiti per l’Ecuador, ma questa provocazione ci è tornata in mente quando siamo rientrati in Brianza, nella nostra casetta ci domandavamo la partenza ad gentes in un altro paese del mondo c’è stata, ma è finita qui o c’è qualcos’altro.

Allora la sana inquietudine di interrogarci su che cosa voleva dire per noi adesso come coppia, come famiglia adesso essere in missione. E ripensando a quella frase ci invitava a uno stato di continua partenza, di continuo nuovo inizio, di continuare a ripensare costantemente come essere cristiani qui ed ora.

Allora “Io parto, ma voi restate” significa anche non restare fermi alla stessa idea, allo stesso pensiero, alle stesse piastrelle, alle stesse persone, ma provare a sperimentare qualcosa di nuovo, qualcosa di diverso non perché si vuole fare i brillanti o i rivoluzionari, ma perché di fondo c’è una chiamata.

E dopo lo sforzo di questo anno in parrocchia, a volte si dice “siamo tutti missionari” però a volte è una scappatoia.

La nostra volontà è di incarnare cosa vuol dire essere tutti missionari e ridire ogni volta questa idea di missione.

Mattia

Il cammino missionario fatto in Ecuador ci ha chiesto di acquisire atteggiamenti particolari che sono stati già detti oggi che sono quelli dell’ascolto e dell’osservare.

Ascoltare e osservare: quando un missionario parte la prima cosa che dovrà fare quando arriva è proprio osservare per capire dove è arrivato ed ascoltare per entrare in quella nuova realtà in punta di piedi che non è facile perché è una posizione che richiede continui aggiustamenti e attenzione e accortezza, come abbiamo sperimentato nell’esercizio fatto all’inizio.

Sono poi venute tante occasioni per esprimere e condividere con la gente i nostri desideri e il nostro sogno di comunità fraterna e di chiesa viva.

Ora viviamo a Monza, nell’oratorio di San Rocco con don Luca e pensiamo che questi atteggiamenti dell’ascoltare e osservare ci siamo chiesti anche qui, oggi come quando siamo arrivati a Guayaquil.

Crediamo che non sia solo quello che si intende quando si parla di inculturazione ma di un mettersi a disposizione per accogliere e valorizzare la ricchezza che c’è nell’altro che incontriamo per poi condividere sogni e progetti senza spingere perché quando uno arriva carico di progetti già approvati e deliberati poi la voglia di spingere è tanta. Invece a volte è preferibile e più digeribile l’atteggiamento dello stare anche in punta di piedi cercando piuttosto con la condivisione dei desideri e dei sogni di risvegliare il desiderio di una chiesa in uscita e la nostalgia del mare e della sua sconfinata grandezza.

Questo per noi non vuol dire accontentarsi o essere poco incisivi ma come Dio non ruba la scena all’uomo figuriamoci se noi possiamo pretendere di rubare la scena a qualcuno che magari c’era prima di noi e si impegnava da tanto tempo. Questo i missionari che partono per paesi lontani lo sperimentano, cercano sempre di acquisire il passo della gente. Anche noi come famiglie ci chiedevamo come poter inserirci e camminare e costruire insieme.

La nostra prima esperienza quest’anno è stata molto arricchente da questo punto di vista, sempre in punta di piedi, fragili, senza troppe risposte, senza sapere sempre cosa fare per continuare ma con la voglia di mescolarci, di ascoltarci e di prenderci in braccio come diceva papa Francesco in 87 di Evangelii Gaudium: il pensiero poi circola, se i desideri sono sinceri, sentiti poi circolano.


  1. Famiglia & preti: corresponsabilità, fraternità, chiesa – don Alberto

Fraternità

Metto al primo posto la fraternità, esperienza originaria di ogni essere umano e di ogni cristiano: essere figli vuol dire essere fratelli/sorelle.

É esperienza molto concreta, particolare e al contempo universale. Si nutre di legami di carne e sangue (non digitali) con questo fratello e questa sorella, per riconoscere un legame universale che ci lega a tutti gli esseri umani.

Come tutti i legami fraterni anche la fraternità tra preti e famiglie non si lascia spaventare o bloccare dalla conflittualità, ampiamente istruiti dalle vicende bibliche e dai suoi personaggi.

E non si fa spaventare nemmeno dallo speciale legame di fraternità (che arriva fino ad assumere i contorni dell’amicizia) fra questo prete e questa famiglia, quasi togliesse qualcosa all’universale legame fraterno con tutti i membri della comunità parrocchiale. L’esperienza dice che il carattere propriamente cristiano di questi legami forti non pregiudica ma rafforza e incrementa le buone relazioni con tutti, anche quelle più deboli ed occasionali.

Corresponsabilità

Nasce dal carattere propriamente cristiano della fraternità. Gesù disse ai suoi: “tra di voi non dovete dominarvi ed opprimervi come chi governa le nazioni”. Il contrario del dominio e dell’oppressione è il servizio e la liberazione.

Dalla fraternità nasce l’esigenza di prendersi cura per educare, accompagnare, soccorrere, migliorare la qualità della vita, celebrare insieme la bellezza della vita, piangere insieme i suoi drammi, occuparsi del bene comune, aprire insomma le porte a Gesù Cristo signore della vita.

Preti, coppie di sposi, famiglie, suore, frati, siamo responsabili-insieme di questa cura per la vita buona e bella di tutti. Questa comune preoccupazione missionaria libera la Chiesa locale dalla tentazione di ridurre la corresponsabilità ad un problema di regole, più o meno minuziose, in stile condominiale (a chi tocca fare che cosa).

La comune responsabilità missionaria allarga gli spazi della reciproca fiducia, nell’unico intento di raggiungere tutte le “periferie esistenziali” nella valorizzazione dei rispettivi carismi. Come prete godo del fatto che i miei fratelli e sorelle sposati possano raggiungere ambiti di vita a me quasi preclusi (scuola, famiglie, sociale); io coppia sono felice che il mio fratello prete possa raggiungere ambiti che solo lui può raggiungere (le profondità della coscienza delle persone nella confessione); siamo contenti che le nostre sorelle suore possano essere più benevolmente accolte da tutti e trovare porte aperte perché donne e riconoscibili…

Chiesa

Questa delle fraternità missionarie è esperienza di Chiesa, è nata e cresciuta con un forte radicamento nella Chiesa locale e parrocchiale.

Dimenticando la mano destra quello che fa la sinistra e senza suonare le trombe davanti a noi (come ammonisce Gesù nel vangelo di Matteo, cap. 6), abbiamo la pretesa di offrire alle diocesi un piccolo modello, una strada percorribile di chiesa sinodale, di preti, laici e religiose/i che camminano insieme, pensano insieme, pregano insieme, programmano e verificano insieme, si formano insieme e mangiano anche insieme.

Fortunatamente siamo tornati all’epoca in cui le “colonne” della Chiesa raccomandavano a Paolo solo di ricordarsi dei poveri (Gal 2,10). Questa preoccupazione comune di stare con i poveri e di muovere verso di loro gli affetti e le intelligenze, anima la sinodalitá e semplifica tutte le antiche questioni, ereditate dal Concilio, circa i compiti specifici dei preti e dei laici, verso una sintesi più avanzata (che ancora dobbiamo trovare).

Diceva don Milani in un colloquio registrato, riportato nell’opera omnia edita da Mondadori nella collana “I Meridiani”, parlando dei seminaristi:

“Allora la cosa più importante è, usciti dal seminario, usciti dai libri, infilarsi immediatamente nell’ambiente più povero, più grigio di tutti, in modo che poi la mente, automaticamente, cercherà le ragioni favorevoli a queste persone che si amano; e siccome le ragioni giuste sono quelle dei poveri… l’importante è innamorarsi lì…

… l’unica decisione da fare nella vita è quella lì: scegliere l’ambiente”.

(Tomo primo, pag. 1306-1307)

Questa è la sfida della Chiesa povera e, in essa, delle fraternità missionarie che la animano.

 

  1. Casa tra le case: voce alle comunità parrocchiali – Giovanna

Le nostre riflessioni hanno un focus diverso dalle altre perché noi siamo una famiglia vicina di casa di questa famiglia a km zero, possiamo dire che siamo a “metri zero”. Siamo parrocchiani della Parrocchia San Martino in Bollate, in diocesi di Milano.

Io sono una vicina di casa di Elisabetta ed Eugenio e rappresento il punto di vista di una famiglia di quattro persone, con due figli adolescenti, che vive nel quartiere di San Giuseppe a Bollate da circa vent’anni. Prima dell’arrivo di questa famiglia, la situazione della nostra zona, periferica rispetto alla Parrocchia di San Martino, unica in un paese con più di trentamila abitanti, non era certo incoraggiante. Il sacerdote della nostra chiesa sussidiaria ormai anziano, non riusciva più a far fronte alle innumerevoli esigenze del territorio, la celebrazione della Santa Messa, senza animazione e con un numero sempre più esiguo di fedeli, vedeva completamente scomparsi tutti coloro che avevano un’età anagrafica inferiore ai sessanta anni. Intorno alla chiesa le aree destinate ad attività ludico-sportive, versavano in uno stato di pietoso abbandono, alla mercé di chiunque. Una disaffezione generale regnava sovrana in tutti gli aspetti della vita quotidiana, si faticava e non poco nel sentirsi comunità.

Poi con una scelta ben ponderata, grazie alla disponibilità della famiglia Di Giovine, uno spiraglio di luce si è intravisto. All’inizio c’era una certa diffidenza. Ci si chiedeva cosa volesse dire l’arrivo di una famiglia missionaria ad abitare in canonica. Qualcuno diceva “saranno venuti a fare i sacristi”, qualcun altro “non è che si vorranno sostituire al sacerdote”, qualcun altro cercava di capire un po’ e poi giudicare. All’inizio loro sono andati avanti per la loro strada senza preoccuparsi più di tanto di quello che si diceva in giro. Il quartiere a sua volta piano piano ha iniziato a vedere che c’erano delle cose che cambiavano.

Laddove regnava un silenzio pigro e vuoto si è sentita la voce ora allegra ora piagnucolante dei figli di Elisabetta ed Eugenio, così la vita ha ripreso a scorrere con una linfa nuova. I bambini hanno iniziato a richiamare altri bambini: allora si è visto che nel quartiere non c’erano solo anziani. C’era qualcosa che era rimasto sopito e aveva bisogno di essere risvegliato. Piano piano ci sono state iniziative mirate che hanno avuto come obiettivo quello di farsi conoscere e farsi riconoscere. Piano piano ci è stato svelato cosa volesse dire essere famiglia missionaria. Piuttosto che tante parole loro hanno iniziato a fare delle cose, hanno fatto delle iniziative con cadenze precise, rivolte a varie fasce che hanno avuto un buon riscontro all’inizio più per curiosità di capire, poi passata la curiosità è diventata un’esperienza condivisa. Ve ne cito solo due per brevità.

Durante quest’anno abbiamo avuto incontri domenicali (1 volta al mese) per riflettere come famiglie sulla Amoris Letitia condividendo riflessioni e anche il pranzo. Era un momento in cui tante coppie, non solo di Bollate, trovavano un momento per passare la domenica in modo diverso.

L’altro momento è stato quello di avvicinare quelli che erano “lontani”, persone che probabilmente in chiesa non avrebbero mai messo piede. Un sabato pomeriggio è stata organizzata una merenda solidale con mamme straniere di varie nazionalità con i loro bambini. Ogni mamma ha portato un cibo speciale della propria terra. Quello è stato un momento semplicissimo in cui i bambini si sono riconosciuti subito e si sono messi a giocare insieme senza alcun tipo di pregiudizio. Anche gli adulti si sono messi a parlare e hanno tessuto buone relazioni.

Di certo non tutto è stato facile, alcuni nel quartiere non hanno compreso e condiviso questa scelta, ma la maggioranza delle persone dopo un periodo di “studio reciproco”, di conoscenza del tessuto sociale di San Giuseppe, tante iniziative mirate andate a buon fine, hanno sentito questa famiglia missionaria ed il sacerdote che celebra la messa domenicale, come punto di riferimento del quartiere, un gruppo di lavoro completo, che comprende laici impegnati e religiosi in un progetto comune, rimanendo sempre nel rispetto reciproco dei ruoli di ciascuno.

A proposito di ruoli a mio modesto parere, tutto il percorso svolto dalla famiglia Di Giovine, ha funzionato egregiamente perché Eugenio ed Elisabetta si sono ritagliati da bravi coniugi, campi d’azione diversi.

La Chiesa da sempre è stata paolina e pietrina insieme, così mi sembra abbia saggiamente fatto questa coppia di sposi.

Eugenio si dedica moltissimo alla sua formazione religiosa, è impegnato in tantissime attività all’interno della parrocchia, ha una sensibilità particolare anche a livello sociale, si interfaccia spesso con “uomini di chiesa” dando il suo contributo di uomo che vive nel mondo con sguardo laico. Rappresenta il volto dell’uomo che vuole conoscere le Sacre Scritture per poterle gustare non solo per sé, ma per poterle condividere con i fratelli. Non disdegna qualora necessario, di usare i mezzi di comunicazione di massa, dove riesce a comunicare in maniera efficace.

Elisabetta è innanzitutto una madre amorevole, che si accorge delle necessità di tutti, che avvicina tutti, anche quelli che sa che in chiesa non ci metteranno mai piede, che si fa carico di problemi grandi e piccoli, senza trascurare i suoi cinque figli. Durante i primi mesi in cui si sono trasferiti in quella che era la canonica, questa ragazza minuta ma tenace, è stata al contempo direttore dei lavori ed operaia lei stessa per sistemare le varie zone in stato di abbandono. Ha messo su una squadra di volontari, abitanti del quartiere che reclutati da lei hanno offerto tempo e fatica per la Gloria di Dio.

Oggi questa realtà è profondamente diversa dall’inizio di questa esperienza, ma forse superati gli entusiasmi iniziali, ora si entra in una fase più difficile, riuscire a dimostrare che esiste una continuità ed una tenuta, cercando di avvicinare coloro che sono lontani per tanti motivi senza però tralasciare quelli che cresciuti all’ombra del campanile, fanno fatica a trovare un posto in una realtà parrocchiale che si modifica.

Ormai abbiamo conosciuto Eugenio e Elisabetta e adesso dobbiamo far fruttare questo entusiasmo iniziale. Abbiamo capito che la loro è un’esperienza bellissima, ma dobbiamo aiutarli ad andare avanti e dobbiamo anche noi prenderci il nostro pezzettino di responsabilità. Come la parrocchia riesce a concretizzare la loro presenza e come noi che gli siamo accanto riusciamo a condividere le esperienze che saranno proposte da qui in avanti.

Come parrocchiana di San Martino in Bollate ed abitante del quartiere San Giuseppe, non posso che ringraziarli di cuore non solo per ciò che è già stato fatto, ma soprattutto per quello che si farà da qui in avanti. Nonostante i tempi difficili in cui ci è dato di vivere, cercheremo tutti di essere testimoni della Speranza.


  1. Essere segno nella città che cambia: un diverso volto della parrocchia – Lucia e Marco

Abitiamo da un anno nella parrocchia Sant’Eugenio alla periferia di Milano, abitavamo in quartiere da un paio di anni. E’ un quartiere particolare che rappresenta bene la città che cambia.

Quando siamo arrivati abbiamo subito notato una differenza notevole tra le persone che incontravamo.

La parrocchia è in un quartiere di circa 7.000 abitanti di cui più della metà non sono di origine italiana.

Noi abbiamo tre bambini: Giuseppe, Pietro e Mattia. Pietro ha 5 anni ed è alla scuola materna in una classe di 27 bambini di cui 3 di origine italiana.

C’è un bel parco giochi che è un luogo “in uscita” che noi frequentiamo molto e anche lì ci sono moltissime donne straniere, soprattutto donne arabe con il velo che hanno un rapporto un po’ più distaccato.

Sul territorio ci sono negozi arabi, bar cinesi, la presenza italiana è molto scarsa.

La parte più “italiana” del quartiere è rappresentata soprattutto da anziani, gente che è arrivata nel quartiere 50 anni fa e ha sempre vissuto lì, mentre ci sono pochi giovani, poche famiglie giovani perché tendono appena possibile a trasferirsi dal quartiere e andare altrove.

In questo quartiere c’è anche il CPS più affollato di Milano

Come molte periferie è luogo di spaccio; i nostri bambini sono abituati a salutare anche gli spacciatori per strada.

Nella zona ci sono anche due campi ROM, uno italiano e uno rumeno che tra di loro non vanno d’accordo.

Tra le donne straniere molte sono sole con figli.

Da punto degli stranieri il quartiere è molto variegato. La componente principale sono di origine nordafricana, egiziani soprattutto, molte persone di origine filippina, sudamericani e centro-americani, eritrei, rumeni e est Europa.

4 aspetti di cui tenere conto:

  • Noi siamo abituati ad intendere “gli stranieri”, i non italiani, come un’entità unica, ci rapportiamo allo stesso modo con tutti. Invece tra di loro ci sono difficoltà perché non si relazionano. A una festa di compleanno al parco le mamme si sono parlate tra di loro per la prima volta. Non è detto infatti che un africano parli ad esempio con un argentino
  • Non vediamo spesso stranieri che vengono a messa e abbiamo scoperto che molto spesso nel loro paese di origine erano magari catechisti o molto attivi nelle parrocchie, mentre qui in Italia non vengono nemmeno più alla celebrazione, quindi ci chiediamo come riprendere persone che erano dentro un’attività, un cammino
  1. Gli italiani, ma anche gli stranieri appena hanno condizioni economiche migliori si spostano dal quartiere comprando casa altrove (anche quelli che hanno casa di proprietà od affitto, non solo chi sta nelle case popolari). Le famiglie, sia italiane che straniere, tendono a pensare al quartiere non come un luogo stabile.
  2. La seconda generazione di immigrati si sente italiana e fatica ad integrarsi sia nelle comunità di origine sia nelle comunità sul territorio

Per essere segno in questa città che cambia, o meglio è già ambiata, bisogna incontrare le persone. La prerogativa della famiglia è che abita in parrocchia ma vive il quartiere: questo significa fare incontri. Facciamo qualche esempio:

  • Jaqueline – incontro frutto della fraternità col parroco perché lei è andata a chiedere il battesimo per il figlio a lui, noi l’abbiamo incontrata al parco e abbiamo incrociato le varie cose e da qui è nata una bellissima amicizia legata anche ai bisogni tra mamme con bambini. Lei ci ha presentato Chiara e la rete si è allargata.
  • Vasantha – famiglia dello Sri Lanka con un figlio battezzato, sono venuti a chiedere il battesimo per il secondo figlio. Ci siamo chiesti come cogliere l’occasione di incontrare le persone attraverso il battesimo e abbiamo proposto l’incontro di famiglie con famiglie perché fosse l’occasione per conoscersi, raccontare di sé tenendo come punto fondamentale la fede. Questo è qualcosa che dà frutto
  • Aga – mamma che abbiamo intercettato in una saletta che c’è in parrocchia a disposizione di mamme con bambini
  • Compagni di Pietro – la festa di compleanno al parco ha dato occasione alle persone di parlarsi. Adesso alcune persone le vediamo a messa
  • Le maestre di Pietro: i figli sono missionari inconsapevoli perché vivono senza particolari problemi
  • Incontro di fine anno per chiedere “cosa avete capito di questa esperienza”: sono venute fuori tante belle parole che ci hanno anche stupito: “sorridete” – “condivisione”, atteggiamenti che hanno fatto vedere la presenza di una famiglia.

 

Il volto diverso della parrocchia è proprio il volto di una chiesa famigliare: più sguardi per un abbraccio che si allarga.

Il prete vive e abita la parrocchia (sacramenti, caritas, …) e la comunità parrocchiale. La famiglia abita la parrocchia e vive il quartiere (parco, scuole, …) e la ritrova in parte nella comunità parrocchiale.

Dall’intreccio di questi sguardi è possibile poter incontrare e condividere maggiormente i bisogni e il quotidiano delle persone

Per il futuro pensiamo di creare e pensare opportunità per condividere la vita, coinvolgendo anche chi incontriamo (es. “percorso attesa” per mamme incinta)