di A. Grillo in Spiritualità elementare, Cittadella Editrice 2011

Le ultime tre parole indicano essenzialmente tre “stanze”: la lettura spirituale di questi luoghi ha bisogno di fedeltà e di invenzione, di un gesto sciolto e lucido con cui poter uscire dai luoghi comuni e poter assicurare la propria fedeltà al reale. In tale fedeltà si gioca la possibilità di ritrovare, per un via un poco originale, la sapienza familiare che attraversa non solo le nostre famiglie domestiche, ma anche le famiglie monastiche, religiose e – in senso lato – ecclesiali. Tre luoghi ci parlano e ci aprono ad una forma elementare di comunione ( ma anche di ospitalità), che ogni famiglia conosce bene.

Tavola, ovvero della comunione di pasto e di comunicazione

 Se c’è “ casa”, molte cose ruotano attorno alla tavola. Anzitutto si strutturano intorno ad essa i “ riti del pasto”, delicatissime soglie di dipendenza e di comunione, di con-vivenza di auto sostentamento. La comunione e la comunicazione si intrecciano: mangiare e parlare, parola e pasto sono analoghi e correlati. Il pasto solitario o la parola che non si lascia nutrire dall’altro, sono le degenerazioni dell’esperienza familiare, oggi intaccata profondamente dalle pratiche televisive e dalla divisione dei tempi di lavoro. La “pausa pranzo” non riesce mai ad essere pienamente festiva: ma un pranzo ridotto ad auto sostentamento significa mangiare la propria condanna. Le tradizioni monastiche hanno percepito la delicatezza di questa soglia, trasformando il pasto in un atto di ascolto silenzioso. Il pasto intorno alla tavola è un surplus comunicativo, tanto necessario quanto la funzione elementare del “mantenersi in vita”. Ma la fame, nell’uomo, non  quella di “ solo pane”. Già gli antichi dicevano che la “ communitas victus” è forma della “ communitas vitae”. Chi mangia insieme vive insieme, e , reciprocamente, per vivere insieme bisogna mangiare insieme. Intorno alla tavola si gioca una parte non secondaria della nostra “ convivenza”. Anche quando alla tavola giunge l’altro, l’ospite, lo straniero. D’altra parte invitare alla propria tavola ( l’invito a pranzo) è un terreno delicatissimo di relazioni che cambiano. Come reagiscono gli uomini e le donne al primo invito a pranzo ? le pratiche umane, su questo punto sono molto differenziate. C’è chi si presenta sempre con un piccolo dono, e chi invece sa di doversi presentare a mani vuote. Dietro a questi comportamenti si possono leggere logiche diverse: da un lato portare un dono significa onorare colui che ha preso l’iniziativa, ma d’altra parte portare il “ dolce” o il “ gelato” è anche un modo per non dipendere completamente dall’ospitante. Nel mangiare presso qualcuno, infatti, facciamo l’esperienza di “ringraziare per la vita donata”. Solo a mani vuote posso entrare in una logica di “totale dipendenza” dall’altro. D’altra parte la cura per l’accoglienza dell’ospite comincia sempre da una preparazione di cibi, perché possa sostentarsi a suo agio. Percepire la tavola di una casa come il luogo delicato e prezioso in cui si la comunione verso l’interno e verso l’esterno si gioca nel “ presentare e consumare cibi” costituisce una risorsa decisiva per la vita spirituale. Proprio perché elementare, ha bisogno di un grado superiore di attenzione e di esercizio, in cui dar prova di virtù e di stile.

Talamo, ovvero della comunione d’amore e di sonno

Anche il talamo, come la tavola, è simbolo per eccellenza di comunione familiare. Sala da pranzo – o cucina – e camera da letto sono le spazializzazioni più elementari e più simboliche della coppia-famiglia. Ma come “ dare da mangiare” è l’atto fondamentale della famiglia e della sua capacità di ospitare l’altro, “dare da dormire” è altrettanto importante per la famiglia al suo interno e verso gli altri, e tale “ atto” segna l’esperienza familiare di una ospitalità ancor più forte. Tanto è vero che per ogni famiglia la possibilità di “ cedere la camera matrimoniale” ad altri rimane come uno tra i massimi segnali di accoglienza ospitale. Nella coppia, tuttavia, il talamo non è solo il luogo in cui il matrimonio si “consuma”, ma è anche lo spazio di un “ sonno al cospetto altrui” che tutte le tradizioni religiose valorizzano come soglia delicata di comunione. Se dormi con accanto qualcuno che può vegliare, ti metti nelle sue mani, ti affidi e ti consegni a lui. Questo è vero anche per ogni ospite. Chiudere gli occhi nella casa di un altro è una forma molto radicale di fiducia, è un modo di fare alleanza. Nella Bibbia, anche il rapporto tra Davide e Saul sapeva qualcosa a questo proposito. Sperimentare la vita di comunione come “ sonno comune” è una sapienza antica, non intaccata neppure dai letti separati all’americana. Il talamo, d’altra parte, accomuna tutte le famiglie: quelle di fatto, quelle di diritto e quelle di mistero. Essere ricevono diversamente questo luogo, ma se elaborano un progetto intorno al loro amore, lo fanno a partire dalla custodia dell’altro che il sonno comune istituisce solennemente tra gli uomini. Mettendo in comune il sonno, gli uomini e le donne si conoscono del tutto, come sempre accade tra madre e figlio, per lunghi anni, all’inizio della vita.

Toilette, ovvero della comunione nella “ non autosufficienza”

“Nel mezzo del cammino di nostra vita” nessuno pensa alla toilette come luogo di comunione, mentre agli inizi e alla fine della nostra vita dipendiamo tutti dagli altri per la nostra toilette. Se l’uomo adulto, maturo, autosufficiente, sente come un “ diritto irrinunciabile” quello di “visitare la stanza da bagno senza bisogno di essere accompagnato” ( I. Montanelli), e anzi afferma “ in bagno” la condizione di clausura per sé e di scomunica per ogni altro, tutti i bambini con meno di 2-3 anni, e ogni persona giunta ad età molto avanzata, hanno bisogno delle “cure altrui”, risultano “non autosufficienti”. Nell’esperienza comune separatezza, esclusione dell’altro e autosufficienza trionfano, non senza giusti motivi. Ma questo ottimo, quando si corrompe, diventa pessimo. Perché può cancellare, inavvertitamente, la memoria e la profezia di “non-autosufficienza” da cui veniamo e verso cui andiamo e che, soprattutto, abbiamo in “comune”. I bimbi prima dei 2-3 anni e i molto anziani, oltre che diverse categorie di ammalati, vivono strutturalmente questa “comunione nella pulizia di sé”. D’altra parte bisogna sempre costatare con una certa sorpresa la confusione tra tavola, talamo e toilette, che è la festa dei neonati. Certo, per gli adulti questa confusione è sempre un poco meno festiva, ma la contagiosa esigenza di questi piccoli mette facilmente a posto ogni eventuale disagio o ogni piccolo e comprensibile disappunto. Durante il pasto, un bambino si addormenta e si scopre bisognoso di “essere cambiato”. Anche il molto anziano confonde tavola, talamo e toilette. Nella considerazione accurata riservata al molto giovane e al molto anziano si può riscoprire – da adulti – l’originaria vocazione comunitaria non solo della tavola e del talamo, ma anche della toilette.

Conclusione

Le tre “T” che abbiamo considerato mostrano bene il livello elementare e delicato con cui facciamo esperienza della comunione. Questo vale, come abbiamo ripetuto molte volte, non solo per la cellula più intima della vita comune ( la famiglia), ma anche per l’ospitalità esercitata verso il più lontano. Ogni atto veramente ospitale “mette in comune” toilette, tavola e talamo. Si indicano i servizi, il luogo del pasto e la camera del riposo. Su queste soglie la nostra sapienza spirituale si acuisce o si ottunde. Una coscienza di ciò arricchisce grandemente ogni uomo e ogni donna. Che può così scrutare con piena avvertenza la potenza nascosta in questi “ luoghi spirituali” per eccellenza.