Indice

Prefazione di mons. Luca Bressan
Introduzione di G.Fazzini

LE STORIE

  1. Pentecoste, dove l’avventura è cominciata
  2. Una famiglia cristiana a… “Islamabad”
  3. I sei del pianerottolo
  4. Peveranza, due cuori e un oratorio
  5. A Bollate rinasce la periferia
  6. Dai meninos de rua del Brasile ai teenagers di Monza
  7. E per vicini i vulnerabili
  8. Il condominio della solidarietà
  9. La collina dell’amicizia
  10. E a Padova nasce la Casa della misericordia
  11. In conclusione
  • La storia delle “Famiglie missionarie a km zero”
  • Altre esperienze in Italia

POSTFAZIONE

  • Tutti i vantaggi di un «abitare generativo» – Intervista a Johnny Dotti

DALLA PREFAZIONE di mons. L.Bressan

Un sano ricostituente, spirituale e pastorale. È questo il giudizio che ha generato in me la lettura del testo che avete tra le mani. Consiglio le pagine che seguono a tutti quei cristiani che provano difficoltà a immaginare il presente e soprattutto il futuro della Chiesa, lasciando che la paura prenda il sopravvento sulla nostra capacità di ascoltare lo Spirito che non smette di soffiare anche ai nostri giorni: i frutti che le esperienze raccontate sanno generare sono davvero un toccasana di cui ha fortemente bisogno il quotidiano della nostra Chiesa. Scopriremo, infatti, che si può parlare di una Chiesa che cambia senza associare a questa constatazione solamente sentimenti come il lamento o il rimpianto ma, al contrario, riscoprendoci capaci di stupore e anche di un po’ di sana curiosità di fronte alle svolte inaspettate che la docilità allo Spirito sa imprimere alle nostre scelte pastorali anche oggi.
Le pagine che seguono ci raccontano una fede che non ha smarrito la propria capacità di ncarnarsi nella storia, grazie a esperienze che sanno radicarsi ancora nel vissuto della gente, assumendo la vita quotidiana come la materia a cui la buona notizia del Vangelo dà forma umana perché profondamente cristiana.


Sono esperienze semplici e allo stesso tempo geniali, in grado di mostrarci che non è poi così complicato o astratto riuscire a dare di nuovo una impronta missionaria alle nostre esperienze.

Quando mi è stato proposto di raccogliere le storie che danno vita a questo libro, ho subito reagito con entusiasmo. Mi ha immediatamente intrigato l’idea di curiosare nelle pieghe del corpaccione della mega-diocesi ambrosiana (e non soltanto) per cogliere e far conoscere vicende di Chiesa meno note e, soprattutto, “fatti di Vangelo” che vedono protagonisti laici e laiche.

A lavoro ultimato (ma solo per ora, il cantiere delle “famiglie missionarie a Km0” è sempre aperto!), devo dire che il raccolto s’è rivelato ben più abbondante del previsto. Fuor di metafora: ho incontrato esperienze ecclesiali davvero innovative, modalità di testimoniare il Vangelo tanto ordinarie nella forma quanto rivoluzionarie e coraggiose per la prospettiva in cui si collocano. Non solo. Questa forma di vita – che a Milano ha già una sua storia ed è accompagnata, da anni ormai, ufficialmente dalla diocesi – è “in rete” con altre esperienze simili e altrettanto interessanti in varie parti d’Italia. A riprova che lo Spirito soffia ancora, oggi non meno di ieri.

Sgombriamo immediatamente il campo da un possibile equivoco. Le pagine che leggerete non formano il catalogo di una serie di esperienze unificate dalla “questione pastorale” di come mandare avanti una parrocchia senza il parroco o, peggio, di come presidiare immobili di proprietà della Chiesa in un tempo nel quale i preti italiani, attualmente 42.220, stanno diventando sempre meno e con un’età media via via crescente (un dato per tutti: nel decennio 2006-2016 i seminaristi del Belpaese sono calati del 18,6 per cento). No. Raccontando storie di famiglie e di sacerdoti che stanno provando a vivere giorno per giorno una vera fraternità che di suo è eloquente, questo libro ha una pretesa ben più ambiziosa e, spero, un obiettivo più interessante: documentare che si può andare da cristiani «in direzione ostinata e contraria» rispetto a una cultura dominante che predica individualismo e sicurezza, senza esibizioni muscolari di sorta.

Di più: questo libro raggiungerà il suo scopo se mostrerà che esiste un volto di Chiesa, forse meno appariscente di altri, ma più autentico e bello, capace di comunicare il fascino del Vangelo in maniera convincente. E di raggiungere tutti, compresi i tanti che stanno “sulla soglia”, i lontani oppure quelli che, cresciuti in oratorio, se ne sono andati anni fa… In un tempo in cui talora i cattolici si sentono assediati e corrono il serio rischio di rinchiudersi in fortini, fisici o simbolici, le storie che leggerete dicono che si possono incarnare modalità opposte a questa per essere fedeli a Cristo. Modalità più evangeliche, missionariamente efficaci perché elementari nella loro grammatica (accoglienza reciproca, servizio e condivisione, apertura al diverso) e, quindi, immediatamente comprensibili anche all’uomo di oggi e in un tempo come il nostro. Un tempo che, forse, ci appare più complicato di altri e che a qualcuno mette in cuore il virus di una nostalgia perversa per i “bei tempi andati”. Benché alcune di queste esperienze siano decollate anni fa, possiamo affermare che esse abbiano trovato nella “Chiesa in uscita”, così come la disegna l’enciclica Evangelii Gaudium di papa Francesco, un punto di riferimento imprescindibile. Com’ebbe a dire il cardinale Angelo Scola in un incontro di qualche anno fa con le famiglie missionarie a Km0: «Il primo modo per “uscire” è vivere così, attraverso il valore e il senso che la fede offre anche al gesto più semplice».

Molte (e differenti) le realtà che ho incontrato. La maggior parte fanno parte delle “famiglie missionarie a Km0” della diocesi di Milano, una realtà di condivisione tra famiglie che abitano in edifici della chiesa: canoniche, oratori o edifici sussidiari. Un’espressione della Chiesa ambrosiana che, però, ha scelto di mettersi in dialogo con esperienze simili in altre diocesi: famiglie che fanno dello stesso “abitare” una forma di annuncio e che lo vivono in sinergia con le proprie diocesi. Alcune di queste famiglie, come quelle milanesi, contribuiscono a “tenere aperte”, rendendole significative, altrettante strutture della Chiesa. Altre abitano in edifici propri, ma con spazi appositamente dedicati alla diffusione della Parola e all’accoglienza di chi è in difficoltà: luoghi fatti per abitare in uno stile di vita autenticamente cristiano.

Ho raccontato in appendice anche alcune storie extra-milanesi per dare conto di questa nuova presenza della Chiesa tra la gente, una presenza “formato famiglia” ormai diffusa, in forme diverse, in varie regioni d’Italia. Si tratta di un panorama di esperienze avviate che vede realizzata pienamente l’immagine della famiglia come soggetto di pastorale; forme di corresponsabilità e scambio vocazionale tra preti e coppie che non possono passare inosservate e che meriterebbero ulteriore spazio di approfondimento.

Girando tra il Varesotto e la periferia di Milano, tra Monza e Padova, Alba e Canelli, la prima cosa che mi ha colpito è la normalità dei protagonisti. L’offesa più cocente che potete rivolgere alle famiglie missionarie a Km0 è di considerarle “diverse” o, in qualche modo, super. Non è così. Quelle che ho incontrato sono famiglie davvero come tante. Ordinary people, come il vecchio titolo di un film di Robert Redford. Gente comune, alle prese con problemi che sono quelli di tutti, dai ritmi incasinati alla casa impossibile da tenere in ordine, come accade quando si hanno due, tre o più bimbi piccoli. Se “diverse” lo sono queste famiglie (e lo sono, in verità) non è in virtù di doti mirabolanti che il Creatore ha loro riservato, né per spiccate capacità pastorali affinate su ponderosi tomi di teologia, ma, piuttosto, per due semplici ragioni. La prima: hanno scelto di farsi gli affari degli altri, ossia di non vivere in “appartamento” come chi, una volta a casa, chiude fuori il mondo e si “apparta”. Convinte che, come diceva Raoul Follereau, «nessuno ha il diritto di essere felice da solo». La seconda ragione: sono famiglie contente di esserlo, per di più in quella forma così particolare che si sono trovate a vivere, «con la porta aperta», che a volte nemmeno le famiglie di origine hanno ben compreso.

La loro è sì una «vocazione nella vocazione», ma a partire (e non nonostante) dalla fedeltà al loro matrimonio. Normalissima è anche l’organizzazione familiare: quasi tutti i mariti e le mogli incontrati mantengono il loro lavoro. E lo fanno non solo come fonte di reddito e occasione di realizzazione personale, ma anche come terreno possibile per testimoniare il Vangelo. Tutte le famiglie, inoltre, sono economicamente autonome dalla parrocchia: si pagano le bollette e non gravano per un centesimo sulle casse della comunità. La normalità dei genitori va di pari passo con quella dei figli, i quali vivono la vita del quartiere, fanno sport o altri hobby esattamente come i loro coetanei e di solito frequentano le scuole del territorio. Ed è proprio in questo contesto che, grazie a una ragnatela fitta di relazioni informali, nascono i contatti più significativi con chi è lontano dalla vita della parrocchia. Uno dei sacerdoti coinvolti in questa avventura dichiara candidamente: «Abbiamo constatato (e non solo teoricamente) quanto i bambini siano dei “missionari inconsapevoli” perché aprono un sacco di porte».

Ecco qui un primo elemento di riflessione. Se c’è una cosa sulla quale queste famiglie scommettono è che l’evangelizzazione proceda per relazioni coltivate più che per eventi organizzati, grazie a porte che imprevedibilmente si aprono più che a programmi da implementare con ferree scadenze. Al modo di Madeleine Delbrel, queste famiglie, per le quali la vita viene prima di ogni teorizzazione, sanno cogliere le circostanze propizie: incontri imprevisti, cuori che improvvisamente si schiudono a confidenze, pianti e risate in compagnia… Sì, perché proprio lì Dio si rivela e si fa incontrare. Se chi conduce le danze è lo Spirito, e non noi e i nostri calcoli, la questione è assecondare dolcemente i suoi movimenti, per quanto spesso imprevedibili e scomodi, più che indossare armature protettive con le quali andare allo scontro col “mondo”. Questo modo di porsi, molto naturale e nient’affatto polemico, ovvero l’accentuazione dello “stare” sul “fare” (un ritornello frequente, nei tanti incontri avuti), mi pare un efficacissimo antidoto al rischio di efficientismo di cui talvolta soffre la Chiesa, non esclusa quella ambrosiana.

Una nota che non è solo “colore”. La prima esperienza di fraternità missionaria a Km0 è stata avviata in una parrocchia di Quarto Oggiaro, nella periferia di Milano. E molte delle successive hanno preso vita in contesti decentrati. Credo non sia un caso. È laddove la realtà si presenta più fluida, magmatica e sfuggente – e non certo dove la Chiesa è graniticamente arroccata su forme e posizioni indiscutibili – che diventa possibile dar vita a laboratori pastorali fecondi come quelli che ho provato a narrare. In un’intervista del 2015 a La Cárcova News, una rivista prodotta nelle baraccopoli di Buenos Aires, Papa Francesco ebbe a dire: «Normalmente noi ci muoviamo in spazi che in un modo o nell’altro controlliamo. Questo è il centro. Nella misura in cui usciamo dal centro e ci allontaniamo da esso, scopriamo più cose e, quando guardiamo al centro da queste periferie, vediamo che la realtà è diversa». L’esperienza delle famiglie missionarie lo conferma.

Chi, fra i protagonisti di questa avventura, ha fatto in passato esperienza di missione nelle periferie geografiche ed esistenziali in Brasile, Perù, Venezuela o altrove, vivendo e operando in diocesi immense, poco strutturate e con un clero assolutamente inadeguato rispetto alle “esigenze pastorali”, ha vissuto sulla sua pelle la sensazione di assoluta sproporzione fra il compito assegnato e i mezzi a disposizione: la medesima che deve aver avvertito il ragazzo dell’episodio evangelico dei cinque pani e due pesci: «Ma cos’è questo per tanta gente?». C’è solo un modo, in questi casi, per evitare la rassegnazione o, peggio, la frustrazione: affidarsi. E vivere dando testimonianza nel piccolo, più che sognare di realizzare opere strabilianti o iniziative di successo. Un compito tipicamente da laici, questo. A loro infatti è consegnata l’affascinante ma non meno ardua missione di innervare il quotidiano e i suoi ambiti (famiglia, affetti, lavoro, tempo libero, rapporti sociali, politica…) con una fede umile e autentica insieme. Consapevoli che non basta più “suonare le campane”, ma vanno “suonati i campanelli”, per toccare il cuore delle persone.

Questa comune preoccupazione per una testimonianza credibile, basata anzitutto su rapporti di sincera amicizia, accomuna oggi persone che, fino a ieri, avresti detto incapaci di “allearsi”. Forse la gravità e la bellezza insieme della posta in gioco sta finalmente portando a mettere in secondo piano ciò che ci distingue, valorizzando, innanzitutto, il desiderio che ci unisce: la tensione a vivere «perché la Parola corra». Un dato che mi ha stupito positivamente, durante il mio viaggio nel mondo delle famiglie missionarie a Km 0, è la variegata provenienza ecclesiale di quanti lo abitano. Si va dagli scout dell’Agesci all’Ordine Francescano Secolare, da Comunione e Liberazione all’Operazione Mato Grosso, dall’Associazione Papa Giovanni XXIII, ai laici missionari della Consolata, alle famiglie partite come missionarie fidei donum. Una “biodiversità ecclesiale” davvero sorprendente, che raramente è possibile incontrare altrove. Un segno inequivocabile che all’opera c’è un Altro, che chiama la sua Chiesa a vivere la «pluriformità nell’unità», come amava esprimersi Il vescovo emerito di Milano, cardinale Angelo Scola.

Proprio perché individuano nello Spirito l’autore di ciò che di buono accade, le famiglie missionarie a Km0 sanno bene che i cristiani sono chiamati a ragionare su tempi lunghi. A loro è chiesta la pazienza del contadino, che consiste nel vedere crescere insieme il grano, che si vorrebbe subito avidamente incamerare, e il loglio, che verrebbe spontaneo voler estirpare al primo germogliare. Nello spirito di Evangelii Gaudium, a queste famiglie non interessa occupare spazi: non vanno in parrocchia con obiettivi di “potere” o per accedere agli incarichi più prestigiosi. Al contrario, insieme con i sacerdoti e la comunità, stanno innescando processi, liberando energie talvolta sopite. Cosa accadrà e quali risultati si otterranno da tali sforzi non è dato loro sapere. Ma non è quello il punto: se viene prima la comunità del singolo (famiglia o prete che sia), chi verrà dopo avrà la gioia di raccogliere i frutti di coloro che hanno profeticamente seminato in precedenza. Alla faccia di Woody Allen che si interrogava provocatoriamente: «Cos’hanno fatto i posteri per me?».

Molte famiglie potrebbero non vedere, se non in piccola parte, l’esito delle fatiche fatte; eppure già oggi tutte (sono loro stesse a dirlo) sperimentano «il centuplo quaggiù»: quella ricchezza sovrabbondante, imprevedibile e immeritata, che il Signore fa vivere a quanti, come nel loro caso, si mettono in gioco per Lui. Il centuplo – per le famiglie missionarie a Km0, che vivono ogni giorno in case disordinate e tra mille “interferenze” – sono le coccole che le signore anziane del quartiere riservano ai figli, le mille attenzioni che parrocchiani di ogni età manifestano per i nuovi arrivati in casa, gli abbracci e le torte ricevute in dono, le relazioni che si moltiplicano e infittiscono, il vicino che si riavvicina alla Chiesa perché l’ha trovata accogliente. E, su tutto, la percezione di una vita più ricca e piena proprio perché donata.

Tutt’altro che trascurabili, a detta degli stessi protagonisti, sono i benefici che anche i sacerdoti che vivono questa esperienza ricevono in dono. Uno dei preti incontrati nel mio viaggio mi ha detto: «La testimonianza del Vangelo è più credibile se frutto di una condivisione e di una vita fraterna, comunitaria. Vale anche per noi preti. Il celibato, se combinato alla vita solitaria, più che una testimonianza rischia di trasformarsi in una comodità, diventando un segno che non parla agli uomini e alle donne di oggi». Il «centuplo quaggiù» è accordato infine anche alla comunità dove le famiglie missionarie a Km0 si trovano a vivere. Grazie a loro, diventa più immediato cogliere che al cuore della parrocchia c’è non “un uomo solo al comando”, ma una fraternità di persone con ruoli vocazioni ed età diverse. E questo contribuisce a trasformare la parrocchia in profondità: da una realtà alla quale ci si rivolge per chiedere e ottenere una serie di servizi (religiosi o di altro tipo) a luogo di vita, ossia dove si  incontrano gli altri e si sperimenta la gioia del Vangelo.

Il fatto di ridare vita, restituendo loro anche un senso, a strutture parrocchiali (oratori o canoniche che siano) abbandonate o non più presidiate, è l’immagine visibile di un’operazione, ben più importante, che le famiglie missionarie a Km0 compiono. Che consiste nel restituire alla comunità cristiana una capacità di ri-generare, con audacia e creatività, spazi e relazioni, perché il Vangelo si incarni anche oggi, sempre più, nella vita della gente.