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La testimonianza di una parrocchia che ha messo al cuore della comunità una “fraternità missionaria”,cioè un’esperienza di vita fraterna e corresponsabilità pastorale tra il parroco e una famiglia residente -Intervento di Rossella de Logu.

Il mio racconto parte dal momento in cui 14 anni fa, una sera, il nostro parroco, don Alberto, confidò ad alcune famiglie che collaboravano più strettamente con lui un suo progetto: “ Io avrei in testa di fare una cosa: io vorrei che la nostra comunità diventasse una comunità diversa.” Ci disse che stava pensando, in accordo con la diocesi, di proporre ad una famiglia di venire a vivere da noi. Non vi nascondo che anche le persone più vicine al parroco si guardarono negli occhi e si dissero: “Una famiglia? e a fare che cosa? non bastiamo noi?”. Questo fu il primo impatto.

Ad oggi,molti anni dopo, penso che mai scelta fu più felice per la nostra comunità.

Devo ammettere che forse la nostra comunità era -e lo è ancora- (scusate l’orgoglio che traspare dalle parole) un po’ particolare, facilitata forse ad accogliere questo tipo di esperienza.

Noi siamo una comunità di Quarto Oggiaro, un quartiere di Milano di estrema periferia e ben noto alle cronache (questo potrebbe spiegare molto in proposito di periferie del mondo). Una comunità che non ha ancora un edificio vero e proprio per la celebrazione e per le attività, e “vive” da 25 anni in un ex- scuola materna, con l’acqua piovana che cade dal tetto, e qualche volta anche qualche gatto! Un struttura per forza di cose essenziale.

Questa precarietà ci ha certamente facilitato nell’accettare un cambio di nota nell’organizzazione della comunità. Ci ha facilitato anche il fatto che questa comunità ha avuto alle sue origini, 30 anni fa, un sacerdote “co-fondatore”, don Sandro, che ci ha insegnato fin dall’inizio l’essenzialità, ed in particolare la cura delle relazioni. Una cura che sempre stata la cifra della nostra comunità: “meglio meno attività, ma fatte bene; meglio meno attività, ma incontrare la gente; meglio meno attività, ma annunciare il Vangelo a tutti, senza chiedere ritorni”.

Quattordici anni fa dunque, Marco e Marta sono venuti a vivere parrocchia con i loro figli e hanno iniziato questo cammino insieme a don Albero e a noi. Poi la loro esperienza è finita e sono arrivati Nicola ed Emanuela. Mentre per la prima esperienza c’era stata titubanza, come raccontato, la seconda è stata fortemente voluta, auspicata, cercata.

Noi non possiamo vederci come comunità se non in questo modo. Ce ne rendiamo conto soprattutto ora che non abbiamo più – per motivi contingenti – una famiglia di parrocchia.

La nostra, che è sempre stata una comunità/comunione-di-vocazioni-diverse, non potrebbe essere cresciuta così com’è cresciuta senza aver fatto l’esperienza della fraternità missionaria tra prete e famiglia.

La fraternità ci ha aiutato ad assumere un volto su questo particolare territorio, il volto di una Chiesa accogliente, che annuncia il Vangelo per quello che è. Per cui chiedo fortemente un’altra famiglia,ne approfitto per dirlo qui, tanto più che stiamo per intraprendere l’ ennesimo cambiamento per la nostra comunità.

Dopo un lunghissimo numero di anni di attesa, infatti, abbiamo finalmente in costruzione un nuovo edificio parrocchiale ed una chiesa nuova; soprattutto in questo passaggio in una struttura così diversa da quella attuale -un passaggio che ci chiede degli sforzi-, pensiamo che la presenza di una famiglia in parrocchia possa essere davvero un legame forte col nostro passato e un aiuto nel costruire il nostro futuro, a mantenere la nostra identità, il nostro “volto di parrocchia”: perchè per noi la parrocchia, o è missionaria o non è. Noi ne siamo fortemente convinti.

La parrocchia davvero è comunione di vocazioni. Ho visto che uno dei laboratori del pomeriggio l’avete chiamato “Aquila e Priscilla”. Io sono originaria di Roma e abitavo di fronte alle catacombe di Priscilla, questo mi fa un po’ sorridere. La Chiesa è quella di Aquila, di Priscilla, di Paolo. Questo lo dico anche a nome del consiglio pastorale: diverse vocazioni, uguale dignità.

Posso certamente raccontare quanto è importante il confronto tra queste diverse vocazioni. E, oggettivamente, per quanto un sacerdote possa aver collaboratori anche stretti, lo scambio sarà diverso rispetto al vivere in prima persona un’esperienza di fraternità: avere una famiglia con cui confrontarsi, di cui capire ritmi familiari ad esempio. Questo va a beneficio di tutta la comunità e anche di quelle persone che chiamerei “insospettabili”, che hanno difficoltà ad accettare un volto nuovo di Chiesa.

Su questo aggiungo che si corre certamente il rischio che la coppia che risiede in parrocchia sia vista come una sorta di “sacrestani d’élite” -mentre è chiaro che non è quello il ruolo -.Il rischio c’è, e rimane anche il rischio che una parte delle persone della comunità, non comprenda cos’è questa esperienza. Ma secondo me, e secondo noi, è un rischio che val la pena correre. Io credo che tempi ci chiedano e siano propizi – è stato anche già detto-. Il terreno è fertile per dare questa svolta verso una chiesa fraterna e missionaria.

Non dappertutto è possibile fare questa esperienza, ce ne rendiamo conto. Allo stesso tempo dico che per molti anni noi operatori pastorali abbiamo vissuto percorsi di formazione, anche quasi in maniera eccessiva, ora è tempo di prendersi delle responsabilità, di provare a esprimere questo nuovo volto della Chiesa: quello di San Paolo, di Aquila e Priscilla. Io credo che lo Spirito davvero agisca e danzi per noi, però dobbiamo dargli una mano nel creare alcune opportunità.

Mi è piaciuto molto il richiamo del precedente intervento “essere segno, non strumento”. Questo richiamo è vero. Davvero siamo chiamati ad annunciare il Vangelo a partire da una comunione. Quale annuncio del di Vangelo ci può essere senza comunione vissuta? Sono quasi quarant’anni che faccio la catechista e mi rendo sempre più conto che il messaggio non passa se le persone quando arrivano non incontrano questo volto accogliente e fraterno, se non vedono una fraternità vissuta e testimoniata. Perché la famiglia che abita in parrocchia, questo fa: testimonia la comunione tra i fratelli.

Vedo verso la conclusioni dicendo che la mia testimonianza è questa: io ho imparato molto in questi quattordici anni, sono grata chi ha reso possibile questa esperienza. Ho anche imparato molto della vita dei sacerdoti . Questo davvero ci tengo a dirlo. Noi spesso siamo portati a criticare i preti, i sacerdoti -giusto eh!-. E’ anche vero che vivono una vita difficilissima, hanno ritmi davvero pesanti e impegnativi. Il sacerdote ha un carisma fondamentale. La Chiesa non esisterebbe senza di loro. Come ci sono i laici , così sono essenziali anche i sacerdoti. La fraternità ci ha aiutato a capire quali siano a volte le difficoltà, e anche le solitudini, dei sacerdoti. Le difficoltà di dover far fronte a richieste anche pressanti, ed essere quasi considerati degli “erogatori di servizi”. Il fatto di vivere un’esperienza di fraternità tra un sacerdote e famiglia fa in modo che quest’immagine in qualche modo svanisca.