versione PDF

Cammini di amore vicendevole, ospitalità, visitazione per un laicato “vero ed autentico” – Intervento di don Mario Antonelli

UN OSSERVATORIO MOBILE

Vorrei introdurmi al tema tentando innanzitutto di comporre quel luogo dal quale escono le mie parole.

Vorrei nominarvi alcuni di quei “noi” di cui -di fatto- parlerà questo mio intervento. L’osservatorio da cui vi parlo è un osservatorio mobile: nel senso che vi parlo in parte dalla memoria di anni passati in Brasile, nella foresta amazzonica vicino all’Atlantico. Vi parlo da un villaggio dove ho abitato in quegli anni, il Km Sette, vicino a Castanhal, 70 km da Belém, capitale del Pará: un villaggio di 120 famiglie molto carenti, case tutte uguali, anche la mia -sei metri per sette-. Immaginate, per me che avevo vissuto per quarant’anni tra una buona casa a Monza e un bel seminario prima a Saronno, poi a Seveso: l’invito al “discendere”, la prospettiva di una kenosi era davvero considerevole.

Vi parlo dunque nell’eco delle voci di quelle famiglie, dei loro bimbi, dei loro anziani. Tra le presenze più sentite, quella delle donne, umiliate, vilipese nel corpo e nell’anima, dalla violenza maschilista e qualche volta anche da quella clericale.

Vi parlo sentendo al mio fianco e sopra di me anche la presenza buona e paterna del Cardinal Martini con il quale siamo cresciuti in tanti; anche lui, in fondo, sta all’origine di questa mia esperienza missionaria in Brasile.

Dico di un osservatorio mobile anche perchè, in quegli anni, tre volte la settimana, andavo ad insegnare la teologia a Belém ai futuri preti delle tredici diocesi di quella regione episcopale del nord del Brasile.

Vi parlo anche da quell’osservatorio che è il seminario di Milano, dove sono rientrato per riprendere insegnamento e anche dall’osservatorio dell’ufficio missionario e dell’ufficio migranti che mi permettono di avere, tramite l’ascolto di non poche esperienze, una certa visione delle cose che è molto arricchente e promettente, e che adesso vorrei insieme a voi intravvedere.

UN LAICATO RESPONSABILE

Ho ascoltato le domande che mi avete scritto qualche settimana fa e cerco di raccoglierle e di onorarle in questo modo.

In primo luogo vorrei dire che cosa ho visto e che cosa vedo tuttora da qui.

Ho visto una diocesi di più o meno 500.000 abitanti, 350.000 di loro cattolici, composta da trentun parrocchie per un totale di 970 comunità. Ogni parrocchia dunque aveva dalle venti alle settanta comunità e ogni comunità era dotata di una sua struttura organizzativa e di dinamiche di vita fraterna e partecipazione. Vi era poi in ciascuna comunità anche un sistema -non sempre funzionante- di comunicazioni tra il centro e le periferie, sistema che avrebbe dovuto permettere alle periferie di portare la ricchezza del loro vissuto cristiano al centro, così che quella ricchezza si rifrangesse poi a favore di tutta la diocesi.

Non avendo da svolgere il servizio di parroco di una parrocchia, mi ritrovavo a poter girare per la diocesi in qualche particolare occasione; quindi visitavo più volte singole comunità sperdute in mezzo alla foresta . Insieme, come responsabile della formazione dei laici in diocesi, avevo modo di incontrare regolarmente presso il centro diocesano di formazione laici e laiche provenienti dalle varie comunità: corsi per i catechisti, per i ministri del culto domenicale, corsi di teologia per laici, settimane di lectio divina.

Potrei elencare così ciò che vedevo:

In primo luogo vedevo una presenza laicale finalmente responsabile della vita della comunità; vedevo carismi valorizzati nel loro profilo ministeriale, vedevo l’istanza del servizio ecclesiale prevalere sulla “regolarità o meno” delle singole persone.

Vedevo donne, che secondo i canoni del dire ecclesiastico, erano “irregolari” per tribolate vicende coniugali, coordinare con passione una comunità; e, tra l’altro, così ferme nella loro obbedienza alla disciplina ecclesiale da non fare la comunione nelle poche occasioni annuali in cui nella comunità veniva celebrata l’Eucaristia. Vedevo giovani donne e uomini, ministri dell’eucaristia, vedevo il tesoriere della comunità cristiana, vedevo i catechisti, le catechiste: tutti carismi dunque valorizzati per il loro profilo ministeriale. Vedevo l’intensità con cui venivano disegnate le forme della comunione dentro le piccole comunità, la passione per una liturgia che veramente era memoria passionis – la memoria della passione-. Vedevo praticata una semplice e domestica “opzione per i poveri”.

Vedevo una vita di fede declinata in termini di affetto, e non già di sapere: da lì la supplica istintiva, la gratitudine commossa. E vedevo anche un “pensare Dio”, a differenza di noi occidentali che pensiamo di Dio a partire da qualche dubbio teoretico, ecco, un pensare Dio a partire da una indignazione etica. E questo fa differenza.

Fa differenza pensare a Dio, e anche la teologia fondamentale, quando per due giorni non puoi lavarti perché l’unico generatore del villaggio è saltato e l’azienda elettrica locale si guarda bene dall’affrettarsi a cambiarlo: si pensa in maniera molto differente il Signore, le sue cose e anche la sua Parola .

Ho visto tanti laici e laiche che servono il Signore e che cercano il Regno, e la sua giustizia. Li ho visti rivestiti di panni di umiltà e di santità, li ho visti delusi ma non risentiti – questo è molto importante-. Delusi ma non risentiti per l’oppressione di non sopiti autoritarismi clericali. E laici e laiche già consueti alla responsabilità di coordinare piccoli greggi, nelle periferie, tra i fiumi e le foreste.

Quando li ho visti così, in quel loro protagonismo laicale degno della lezione conciliare, ho ritrovato un passaggio di Puebla molto importante, dove si descrive il laico come “un uomo di chiesa nel cuore del mondo e uomo del mondo nel cuore di chiesa “. Li ho visti così.

SANTITÀ DOMESTICA E SANTITÀ OSPITALE

In sintesi, quello di cui ho goduto proprio come prete, lo riassumerei sotto questi duplice profilo della santità (una santità che ci è congeniale per grazia di Dio, che cerchiamo,…. ce lo leggiamo negli occhi vicendevolmente!): uno lo chiamerei la santità domestica, l’altro la santità ospitale.

Ho sperimentato la santità domestica, innanzitutto stando in mezzo a loro e condividendo tanti momenti di formazione e di vita ordinaria. Intendo, per santità domestica, quella accoglienza del Vangelo che non comporta alcuna censura, dichiarata o nascosta, delle cose del mondo e delle esperienze elementari in cui si svolge l’esistenza di ciascuno.

Io dico che, per certi versi – per quanto ne so- a noi preti questa santità domestica è per certi versi un po’ preclusa. Per la tradizione occidentale e grazie anche alla nostra fisionomia che lo è lo stato celibatario, evidentemente ci giochiamo una delle esperienze decisive ed elementari dell’esistenza che è quella che conduce al diventare una carne sola; così come ci giochiamo l’esperienza esaltante e sfiancante di un lavoro per guadagnarsi il pane; …e la paternità, e altro ancora.

Ecco, la santità domestica; l’ho ammirata e contemplata in quegli anni in un modo più vistoso e più da vicino di quanto potessi fare qui. È la santità che comporta l’assunzione aperta, generosa del Vangelo che viene non già a censurare, ma a modificare e trasfigurare il modo di vivere quelle forme più elementari del nostro esistere: dagli affetti alla relazione coniugale, dalla responsabilità di un lavoro alla responsabilità di essere figli e figlie di genitori anziani, all’onere di prendersi cura del convivere buono dei cittadini all’interno di un villaggio o di una favela.

Questa santità domestica, dall’inizio, mi è parsa imparentata e particolarmente con-veniente rispetto alla santità ospitale: la santità della visitazione e dell’ospitalità. Una santità dunque di donne e di uomini, delle famiglie in particolare, una santità che attiva dinamiche virtuose per una conversione pastorale delle comunità e della parrocchia intera: una conversione che va verso una chiesa più missionaria, povera e pasquale come diceva Medellin nel 1968.

Santità, dunque, della visitazione, santità dell’ospitalità. Intuivo e intuisco ancora di più oggi, proprio guardando voi, e sapendo qualche tratto della vostra storia, intuisco che davvero la santità domestica, proprio per la sua figura, conviene, è favorevole, è propizia per una conversione pastorale che rifiguri la Chiesa in termini di “santità che visita e che ospita”.

Dando qualche scossone anche importante a strutture, a moduli pastorali, parrocchiali ormai obsoleti che impediscono l’assunzione dell’istanza missionaria; vincendo così la resistenza di strutture e moduli pastorali clamorosamente obsoleti, con il loro intrinseco riferimento ad un modello di Chiesa “disabituata” alla comunione e “disimpegnata” nella missione.

La santità domestica è persuasiva. Davvero ho davanti agli occhi persone che erano sulla soglia della fede cristiana e venivano confidarmi: “Padre Mario, quando vieni Dorivane, con i suoi 35 anni, il suo bambino piccolo, il suo buon matrimonio…; quando viene lei a portarmi la comunione, io rimango incantato: intuisco al volo, da lei, dal suo volto, dalla sua presenza che il Vangelo prende corpo in un’esistenza concreta, le cui esperienze ordinarie e drammatiche sono le stesse del mio esistere”: senza operare nessuna censura, nessun taglio, assumendo tutto l’umano, in tutta la sua bellezza e in tutto suo dramma.

Allora ecco che la santità, che visita e che ospita, proprio in quanto è come la gemmazione della santità domestica, davvero diventa persuasiva: capace di suscitare cammini di ascolto, di conversione, di adesione al Vangelo che viene annunciato.

TRE PAROLE CANONICHE: ESSERE POPOLO DI DIO, OSPITALITÀ, ESSERE SEGNO

Se questo è quello che ho visto e che vedo ancora oggi, vorrei consegnarvi ora, o perlomeno vorrei condividere con voi, tre parole che a mio avviso riescono a rilanciare questa visione, dandole ancora più corpo. Insieme, sono tre parole regolative perché tutte tre queste parole hanno una certa “forza canonica”: diventano come una norma, un invito, uno sprone a procedere perché l’esperienza che in qualche modo condividiamo sia sempre più secondo il Vangelo.

Popolo di Dio

Una prima parola canonica: la traggo dalla storia della Chiesa più o meno recente. Faccio riferimento in particolare alla storia della chiese latinoamericane, ma sapendo che in fondo quello che è avvenuto là, lo ritroviamo anche da noi in Europa. Forse in particolare in Francia.

Con l’assemblea di Medellin nel 1968, le chiese latinoamericane recepiscono in modo creativo il Concilio. Una delle parole centrali è la parola popolo di Dio. Il passaggio di Medellin è dal binomio clero-laici al binomio comunità-ministeri: ecco che quelle chiese diventano laboratorio ecclesiologico, un laboratorio che viene ad istruire anche le chiese da questa parte dell’oceano.

Vorrei rinvenire con voi alcuni tratti di quell’esperienza ecclesiale:

1) L’emersione della figura dei laici come soggetti nuovi capaci di responsabilità nel campo d’azione della Chiesa.

2) La figura delle comunità cristiane delle origini viene ritrovata come il nuovo “racconto fondatore” a cui ispirarsi e a cui ancorare l’immagine/sogno della Chiesa di oggi.

3) Un modello sociale nuovo, intriso di istanze di democraticità, soprattutto in quei paesi sferzati dai venti gelidi delle dittature. Questo nuovo modello sociale viene a scuotere la tradizionale impronta gerarchica delle chiese. Ecco che lì comincia a farsi largo questa intuizione: che cosa veramente è sacramento? Che cosa va venerato, onorato, cercato, inseguito come sacramento del Signore e della sua autorità? Non già in primo luogo l’autorità gerarchica, ma la comunione fraterna del popolo di Dio. Ecco il sacramento, ecco ciò che in primo luogo dà notizia di Dio e del suo Vangelo di salvezza.

Voglio leggere in questo modo questa prima parola canonica della storia della chiesa latino-americana. Di qui cominciò anche a serpeggiare un certo discredito nei confronti delle più tradizionali forme della religiosità popolare che vengono in qualche modo svalutate, oppure fu posta un’enfasi particolare alla dimensione comunitaria dell’esperienza cristiana che rischiava e rischia di mettere ai margini l’esperienza più tradizionalmente individuale del vissuto cristiano. Potremmo anche parlare di una certa esaltazione della militanza cristiana, quasi che l’assumere un ministero dentro le comunità fosse l’indice inequivocabile della qualità della propria fede, rischiando di decretare come “vuota” la fede di chi un ministero vistoso nella comunità non l’aveva e non l’ha, o vive la sua adesione al Signore Gesù esercitando quel ministero più ordinario ed elementare che è l’esercizio secondo il Vangelo della relazione coniugale, della paternità e della maternità…

Chiudo questa prima parola canonica, citando uno di quei teologi che ha fatto la storia della teologia in America Latina: Clodovis Boff. Dopo Aparecida (2007), Clodovis Boff scrive un articolo molto duro contro gli esponenti di spicco della teologia della liberazione, da cui lui stesso proviene. Scrive a un certo punto queste parole sul cristianesimo popolare e su quello elitario-militante che alla vostra ripresa intelligente: « Il nostro cattolicesimo popolare, benché esaltato in Aparecida (n.258-265), persino come “tesoro più prezioso che il popolo ha”, è un cattolicesimo fatto più di tradizione che di convinzione personale, più di cultura che di esperienza spirituale […] deficit, che a partire da Medellín è diminuito, ma che permane ancora grande, in termini di coscienza morale e di compromesso politico. E anche il Cattolicesimo delle minoranze o elites (vescovi, preti, suore, agenti pastorali, militanti, intellettuali) è più dottrinale che esperienziale, più ideologico che personalista, più gnostico che esistenziale, più moralista che mistico, più muscolare che cordiale, infine, più pratico che teo-patico».

Ospitalità: dalla “philadelphia”, la “philoxenia”

Traggo la seconda parola canonica dallo stesso canone per eccellenza: la Scrittura.

Vorrei leggere brevemente con voi questi versetti del capitolo 12 della Lettera ai Romani, i versetti dal 9 al 13: siamo nel contesto di quest’esortazione apostolica che Paolo rivolge ai Romani “per le misericordie di Dio”.

Paolo scrive: ”Che il vostro amore sia senza ipocrisia, detestando il male e attaccandovi al bene con amore fraterno, avendo affetto gli uni per gli altri, ciascuno considerando l’altro come più degno di stima. Siate diligenti, senza pigrizia, fervorosi nello spirito, servendo al Signore, rallegrandovi nella speranza, perseverando nella tribolazione, assidui nell’orazione, partecipando alle necessità dei santi, cercando di offrire l’ospitalità”.

Questi versetti si aprono e si chiudono con due parole che sono l’incanto che voi sprigionate in questa primavera della Chiesa; voi, voi in modo peculiare… La prima parola è quel “amore fraterno” che nella la lingua di Paolo si chiama philadelphia, l’amore del fratello. L’ultima parola che abbiamo ascoltato, qui tradotta con ospitalità, è la philoxenìa, letteralmente l’amore dello straniero, l’amore dell’altro. Ecco l’icona biblica, la parola canonica, che viene a raccogliere il ben di Dio che voi siete -che noi siamo!- e ne intende sviluppare la grande promessa. C’è sempre una philadelphia che precede, propizia e alimenta la philoxenìa. Sempre.

Anche in Ebrei 13,1s abbiamo la stessa coppia di parole, nella stessa scansione, nello stesso ordine. Sempre prima la philadelphia, l’amore fraterno. Sempre quel comandamento nuovo che ha un suo primato, intoccabile e sacrosanto. Quel comandamento nuovo che recita, non già “amate gli altri”, non già “amate i piccoli e i poveri”, ma recita, detto sulle labbra santissime del Signore, “amatevi gli uni gli altri”.

E non venite a reclamare che dovremmo essere anzitutto noi preti ad incarnare, a dare corpo – bello, armonico- a quel comandamento nuovo. Per via dello spessore sacramentale che vanta la vostra esistenza di sposi, … tocca in primo luogo a voi. Tocca a voi essere veramente al cuore di una comunità cristiana, mostrando questo primato della philadelphia, dell’amore vicendevole, coniugale, familiare, come l’anima di ogni philoxenìa della comunità dei santi. Voi al centro, addirittura con responsabilità coordinative, direttive della comunità, con tutto il patrimonio di questa vostra singolarissima e sacramentale philadelphia. Dovrei io inginocchiarmi davanti a voi come davanti al Santissimo Sacramento. Nessuno mi smentirà. Con questa vostra philadelphia la comunità viene irrorata della stessa carità del corpo santo di Gesù e si piega ad inventare cammini di ospitalità. cammini di visitazione, cammini di philoxenìa.

Segno e strumento

La terza parola canonica viene dal Concilio Vaticano II. Nel primo numero di Lumen Gentium abbiamo quel passaggio indimenticabile che dice che la Chiesa è “in Cristo come sacramento, cioè segno e strumento, dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”. La Chiesa come sacramento: di che cosa? …“dell’intima unione con Dio e dell’unità di tutto il genere umano”.

Vi segnalo soltanto che questo accostamento di “intima unione con Dio” e di “unità del genere umano” significa che l’intima unione con Dio, per tutti, si dà sempre nella forma comunitaria. Non si dà in termini di una santità individualisticamente intesa perché, così, la santità non esiste. L’intima unione con Dio prende forma, prende corpo, nell’unità fraterna. Unità nella differenza, comunione nella quale il munus (dono, servizio…) di ciascuno converge a formare con il munus di tutti gli altri l’umanità vera, quella a immagine e somiglianza di Dio. L’unità, nome essenziale della vita buona del Vangelo: mistero della vita buona di Dio, forma divina della vita buona dell’uomo.

Vorrei indugiare su quel “segno e strumento”, in questo ordine, ancora una volta. Un ordine che non possiamo invertire: non possiamo rinunciare come Chiese a cimentarci con la responsabilità di essere innanzi tutto “segno”.

“Segno”, ovvero porzione di umanità che vive l’intima unione con Dio e il mistero incantevole e duro dell’unità fraterna. Ho l’impressione che in tanti anni postconciliari, le chiese, forse anche le comunità parrocchiali, si siano accontentate di essere strumento per il sorgere dei valori del Regno nel mondo, sul territorio; ho l’impressione che le comunità parrocchiali, e i cristiani in genere, si siano veramente dedicati in modo ammirevole ad essere strumento, cioè presenza capace di promuovere i valori del Regno, che è dire la pace, la giustizia, l’uguaglianza sociale, la solidarietà, il buon convivere civile, l’educazione e così via, sul territorio. Ma mi domando: abbiamo investito altrettanto sulla responsabilità di essere segno? Come potremmo essere strumento veramente efficace se trascuriamo questo onere di essere segno dell’unità di tutto il genere umano? A volte pare che il disagio e l’imbarazzo intorno alla responsabilità dell’unità ecclesiale siano così laceranti che le Chiese preferiscano pensarsi più come “strumento” che come “segno” dell’unità del genere umano: nel piccolo di una comunità parrocchiale come nell’estensione universale della cattolicità. Senz’altro più agevole domandarsi “Cosa fare perché il mondo si ritrovi nell’unità?” (strumento) che cimentarsi con un “Come essere umanità finalmente riuscita nell’unità, indice consistente di bontà, verità e bellezza?” (segno).

“Segno”, ovvero dove il mistero dell’unità, il mistero del partecipare alla stessa comunione trinitaria, viene ricercato, accolto praticato, invocato dentro gli affetti fraterni, dentro la philadelphia della comunità. A maggior ragione, questo è un titolo in più che ci permette di scommettere su quest’esperienza che voi state osando.

Un ultima parola: vorrei citarvi l’inizio del numero 21 di Ad gentes. Da qualche tempo sono impegnato nella scrittura di un commentario scientifico a Ad gentes, il decreto conciliare sull’attività missionaria della Chiesa. Ho trascorso a gennaio un po’ di giorni all’Archivio Segreto Vaticano dove ho scoperto un passaggio molto significativo della sensibilità della Chiesa circa la questione e il sogno che ci vede protagonisti. Il numero 21 di Ad gentes inizia così: “La Chiesa non è realmente costituita- in latino c’è vere, non è quindi veramente costituita – , non vive in maniera piena e non è segno perfetto della presenza di Cristo tra gli uomini, se alla gerarchia non si affianca e collabora un laicato autentico”.

Ho dunque trovato che nella expensio modorum (prima dell’approvazione finale del testo, la commissione responsabile del documento si ritrovava per passare in rassegna e valutare tutte le proposte di modifica avanzate dai singoli padri, i cosiddetti modi), tra le tantissime proposte, una diceva: “Mettiamo questo testo in forma positiva”. A questo padre conciliare non piaceva il modo così netto e negativo: l’espressione “la Chiesa non è veramente costituita, …” sembrava eccessivamente generosa nel riconoscimento del ruolo dei laici in rapporto alla “vera costituzione” della Chiesa, al suo essere “segno perfetto della presenza di Cristo”. Quel padre proponeva dunque di mettere in forma positiva: “La Chiesa è veramente costituita quando c’è un laicato autentico…”. La commissione rifiuta la richiesta di modifica, motivando con fermezza il mantenimento del testo in forma negativa, più capace quindi di esprimere la presenza del laicato autentico come assolutamente necessaria per la stessa “vera costituzione” della Chiesa: “Manteniamo la forma negativa perché così si vuole enfatizzare che, senza laicato, non c’è vera e piena costituzione della Chiesa”.