Testo dell’intervento di Emma Gremmo, laica missionaria del Centro Fraternità Missionaria di Piombino da ecodellemissioni.it

Bisognerebbe avere il coraggio di inventare nuovi cammini pastorali, più missionari, anche qui, nelle nostre parrocchie. Come si fa? Abbiamo i Sinodi, abbiamo un mare di cose, ma bisogna tornare alla evangelizzazione. […] Le chiese si svuotano e chissà che non sia una benedizione di Dio e un richiamo per noi cristiani ad essere quello che dovremmo essere, perché la missione non è per portare gente in chiesa, ma è per fare piccole comunità che vivono la vita di Gesù e che irradiano. Quello della partecipazione non è più affare nostro, è affare della coscienza personale dell’uomo e della donna, del singolo, ed è affare di Dio. A noi il compito di testimoniare il Vangelo.

Lasciate che mi presenti
Sono piemontese di nascita, di Biella e lo capirete dal mio accento barbaro. Sono stata tredici anni in Congo e adesso, da 17 anni, sono con Padre Carlo a Piombino. Noi pensiamo che oggi, in questa fase della vita della Chiesa, i laici sposati, le famiglie, sono missionari anche ad gentes, a pari dignità con sacerdoti e suore. La vera Chiesa non è formata da missionari, suore o preti da soli, ma la vera missione è formata da piccole comunità cristiane che sono l’immagine ecclesiale di preti e laici insieme.
Il nostro compito, a Piombino, è preparare la partenza di piccole fraternità formate da preti e laici, comunità ministeriali dove ognuno ha il proprio ruolo: il laico non fa il prete e il prete non fa il laico, ma insieme, in una certa zona, si porta avanti corresponsabilmente, il territorio di missione che ci è stato affidato. Questo è il lavoro che stiamo facendo a Piombino.
So bene che la maggioranza di voi potrebbe essere qui al mio posto, perché io sono una semplice cristiana, che non ha altra consacrazione che quella battesimale, anche se ho dato la vita alla missione. Parlo partendo dall’esperienza. Siamo partiti negli anni settanta, con una certa mentalità di Chiesa, la Chiesa del Congo ci ha fatto il regalo di una visione, di un modo di essere Chiesa, che ci ha veramente cambiato.

Crediamo in un Dio-Famiglia
Venendo al tema dell’incontro, Quali cristiani per quale missione, l’accento lo metterei su quali cristiani, perché quale missione viene di conseguenza, e questa mattina non aspettatevi delle novità, sentirete delle cose che già vivete. La mia proposta è: ripassiamo insieme la lezione per essere veramente Cristiani e Chiesa!
Noi crediamo in Gesù e in Dio. Com’è che lo possiamo chiamare il nostro Dio, Dio Padre? C’è solo lui? Diciamo di credere in Dio, ma noi non abbiamo un Dio generico, abbiamo un Dio-Trinità, che io preferisco definire un Dio-Famiglia, e questo cambia davvero la nostra fede. Il Dio-Famiglia vive due grandi realtà: la prima è la Comunione. Viene fuori dal Vangelo: sono in tre, una famiglia, c’è il maschile e il femminile nella Trinità, dove si amano da morire, ma il loro amore non sta chiuso al proprio interno, ma si apre alla Missione, e questa è la seconda realtà. Ecco la vita del Dio-Famiglia: Comunione e Missione.

Come Gesù, missionario del Padre
Il nostro Dio si apre alla Missione inviando uno della famiglia, Gesù; si apre rischiando, questa Famiglia di Dio. Ecco, la vita del nostro Dio-Famiglia è una vita di comunione, con un grosso amore all’interno, un amore che si apre e va in missione, rischiando, per annunciare a tutti questo amore. E chi è che viene a visitarci e ci dice che Dio è comunione e missione, e che torneremo a lui? È Gesù, ovviamente, che perciò chiamerei Missionario del Padre; questo è il nostro faro, in questo momento.
Il Vangelo di Giovanni (20, 21), ci racconta che, la sera stessa della resurrezione, Gesù apparve ai suoi e pronunciò quella famosa frase: Come il Padre ha mandato me, così io mando voi! Come e così, queste sono le due parole più importanti, alle quali noi non facciamo caso. Ma su queste due parole bisognerebbe stare in contemplazione non un’ora, ma una vita intera! Perché non finiremo mai di capire che come il Padre ha mandato il Figlio, così, allo stesso modo, Gesù manda noi.
Com’è che il Padre ha mandato Gesù, o meglio, come Gesù è stato missionario del Padre? Per semplificare, direi sostanzialmente con tre atti, che appartengono anche alla nostra vita cristiana.

Primo: Nazareth
Il primo atto voluto dal Padre, perchè Gesù diventasse missionario tra noi, lo definirei con una parola, Nazareth. Perché Nazareth ci dice una cosa importantissima: Dio è venuto in mezzo a noi e si è fatto uno di noi, ha imparato a diventare uomo nella nostra cultura. Per noi non c’è l’incarnazione, perché siamo già carne, per noi c’è l’inculturazione. Se la missione è al modo di Dio, allora la vita di Nazareth sta a significare lo scendere di Dio nella nostra vita. È il quotidiano il primo luogo della missione, perciò Nazareth vuol dire che Gesù vedeva la situazione del suo tempo, l’oppressione del suo popolo, l’esercito romano, le ribellioni, le relazioni di potere: vedeva, capiva e faceva sintesi. Il pensiero del Padre, quello che aveva imparato dal Padre, e quello che vedeva, e faceva sintesi. Allora, per noi, Nazareth è sintesi tra vita concreta e parola di Dio, parola e vita, sempre insieme per poter veramente capire.
Io ritengo che noi cristiani dobbiamo confrontarci oggi con tre nodi: il potere economico, sostenuto dal potere dei media, e dal potere militare. Questi sono i tre grandi nodi che soprattutto qui, nel nostro mondo, annebbiano la vita. E le tre grandi sfide quali sono? Pace, giustizia e salvaguardia del creato. Queste cose noi le dobbiamo portare nel cuore, se si vuole far scoppiare la novità di Gesù Cristo, nella nostra quotidianità; se io sono casalinga e lavo i piatti, continuerò a lavare piatti, ma è molto diverso lavare i piatti sapendo come sta andando il mondo e lavarli senza avere orizzonti.
Se tornando da un mese in missione, in questo mondo non ci si ritrova più, è tutto sbagliato davvero, non siamo a Nazareth! Questo mondo è amato da Dio ed io lo devo amare, amare la mia quotidianità, sia che lavi i piatti, sia che faccia il medico, sia che vada un mese all’estero, sia che ritorni. Bisogna amarla la quotidianità! Perché Gesù l’ha amata. Questa è la prima cosa.

Secondo: i tre anni di vita apostolica
Ma attenzione: Gesù non si è fermato alla quotidianità, ha elaborato la sua vita per annunciare. Dopo Nazareth, vengono i tre anni di vita apostolica, in cui Gesù vive una vita di comunione, di amicizia, di missione e di apertura. Non fa tutto da solo, pur essendo Dio: si associa i dodici. Dice il Vangelo di Marco (3,13-15) che è fondamentale: chiamò quelli che volle, che andarono da lui, e questi erano dodici… e li costituì. Li chiamò perchè stessero con lui e per inviarli a “predicare e a scacciare i demoni”.
Chi erano questi dodici? Tutti noi! Perché 12 erano le tribù che costituivano l’intero popolo d’Israele, e nei 12 chiamati da Gesù è presente tutto il nuovo popolo di Dio. Li ha chiamati, prima di tutto, perché stessero con lui. Per imparare a conoscerlo. Stare con lui, stare tra loro e stare con tutti: questo è quello che oggi chiamiamo vita di comunione. E poi li ha inviati. A far cosa? Il testo dice a “predicare e a scacciare i demoni”. Beh, diciamolo in italiano moderno. Come possiamo tradurre predicare? Evangelizzare, annunciare l’incredibile amore di Dio. L’annuncio non è la catechesi. Guardate che oggi, la maggioranza dei cristiani che richiedono i sacramenti (il battesimo dei bambini, prime comunioni, cresime) sono dei pagani! Quindi, predicare significa saper annunciare l’amore di Dio.
E scacciare i demoni vuol dire vivere la solidarietà, ma al modo di Gesù: non una solidarietà qualsiasi, non pura beneficenza, ma una solidarietà liberante, dal male morale e materiale. Dove l’altro, che è lì a chiedere, sempre chinato, diventa protagonista della propria vita; si alza in piedi, in faccia agli altri e davanti a Dio. Questa si chiama missione. Ma come facciamo a vivere la comunione e la missione? Com’è che possiamo vivere la comunione? Negli atti degli apostoli, al capitolo 2, 42-47, leggiamo: erano assidui ad ascoltare la Parola, la vita di fraternità, nello spezzare il pane e nella preghiera. Questi sono i quattro pilastri su cui si fonda la comunione, senza di essi non c’è comunione che tenga.
Gesù aveva detto: Verrà lo Spirito e vi ricorderà ogni cosa e vi porterà la verità tutta intera. Per noi missionari, e cristiani, lo Spirito è presente in tutte le persone, in tutte le culture e in tutte le religioni. Se io ce l’ho dentro, mi aiuta capire ascoltando le altre persone, che come dicevamo, è la cosa più importante: l’ascolto della vita delle persone e della Parola per poterle integrare. C’è una grossa conversione da fare, se vogliamo che lo Spirito Santo, che abbiamo dentro di noi fin dal giorno del battesimo, e che è presente ovunque nel mondo, ci parli e ci conduca alla verità tutta intera.

Terzo: La morte in croce
Non è mica finita con la vita pubblica, la vita di Gesù. Ci manca l’ultimo atto, la morte in croce! Se dovessi definire la croce, non saprei da che parte cominciare: è indicibile, è ineffabile, è un mistero, è amore gratuito, è perdono unilaterale e senza pentimenti, è per tutti, è accoglienza gratuita… È aver tolto la parola nemico dal vocabolario, insieme alla parola guerra, giusta o ingiusta che sia.
E la missione è la sequela di Gesù Cristo, vissuta qui e in ogni luogo della terra, fino al dono di sé, anche per il nemico. La discriminante della vita cristiana si gioca lì: se nel momento difficile, sei capace di tenere ancora la porta aperta a Dio e agli altri, in una fraternità che non finisce nemmeno davanti al dolore, all’odio e alla violenza. Altrimenti sei tale e quale agli altri.
Allora il missionario, la missione, non è l’aiuto ai poveri che muoiono di fame; no, assolutamente, non è l’aiuto umanitario. La missione è la testimonianza di una vita di comunione e di missione portata fino all’amore estremo, gratuito, unilaterale. È chiaro che, se io sbarco in Congo e vedo degli uomini e delle donne che, per la mia fede, sono fratelli e sorelle, in situazioni di grave disagio, come posso accettarlo? Ecco, allora, la lotta all’ingiustizia, la lotta contro la fame, ma è la conseguenza di un amore che ho dentro di me e, a questo fratello, non trasmetto solo il pane, ma anche questa visione di vita, perché anche lui entri nel giro dell’amore.
E se c’è qualcuno che va, ma non è un credente? Molto bene, perché a me è chiesto di vivere la vita di Gesù, e questa devo testimoniare, ma con l’altro possiamo camminare mano nella mano. Tornando dall’Africa, sono stata a Sarajevo con i 500, insieme a Monsignor Tonino Bello, nel pieno della guerra, poi sono stata al simposio internazionale della pace in Butembo organizzato dai Beati i Costruttori di Pace. C’erano missionari, missionarie, molti credenti e tanti giovani che rischiavano la vita. C’erano anche tantissimi non credenti; ecco, la cosa più bella per me è stato vederli lavorare, mano nella mano, coi credenti. Ma questi non sono missionari al modo di Gesù; li considero fratelli e sorelle, e insieme con loro, ciascuno a partire dalla propria fede, cerchiamo di costruire un mondo migliore. Ma la missione cristiana è annuncio e testimonianza di Gesù Cristo, tutte le cose umanitarie sono solo una conseguenza.

La nostra missione, qui e ora
Bisognerebbe avere il coraggio di inventare nuovi cammini pastorali, più missionari, anche qui, nelle nostre parrocchie. Come si fa? Abbiamo i Sinodi, abbiamo un mare di cose, ma bisogna tornare alla evangelizzazione. Quando siamo arrivati nella parrocchia di Cotone, vicino alle acciaierie, su 3000 abitanti, avevamo sette donne che frequentavano la parrocchia, la più giovane aveva 70 anni!
Da dove partire? Da una testimonianza e da chi ti veniva a chiedere i primi sacramenti. Si, senz’altro, però fai un cammino con la Parola di Dio! Da lì sono nate tante piccole comunità di base, che noi chiamiamo comunità del Vangelo, otto piccole comunità, che sono la minoranza nel nostro quartiere, però tutto il quartiere fa i conti con la comunità cristiana. Dice dei sì e dei no, c’è una grande simpatia, si lavora contro l’inquinamento, per la pace, per la giustizia, per quello che si può con tutti, ma l’importante è che questi pochi che vengono in chiesa, nelle otto piccole comunità del Vangelo, che si riuniscono settimanalmente nelle case, abbiano questa vita di comunione, di missione e di annuncio.
Le chiese si svuotano e chissà che non sia una benedizione di Dio e un richiamo per noi cristiani ad essere quello che dovremmo essere, perché la missione non è per portare gente in chiesa, ma è per fare piccole comunità che vivono la vita di Gesù e che irradiano. Quello della partecipazione non è più affare nostro, è affare della coscienza personale dell’uomo e della donna, del singolo, ed è affare di Dio. A noi il compito di testimoniare il Vangelo.